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Aleksandr Aleksandrovic Blok è stato un grande poeta e drammaturgo russo

Mi rivolgo a tutti i parenti e agli intimi, a tutti gli uomini di buona volontà, mi rivolgo a tutti quelli che hanno un cuore aperto alla poesia e alla compassione.

Erofeev


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

I RUSSI

Blok - Bulgàkov - Cechov - Dostoevskij - Erofeev - Esénin - Gogol - Gor'kij - Lermontov - Nabokov- Pasternak - Puškin - Šolochov - Solženicyn - Tolstoj - Turgenev - Zamjatin -

Aleksandr Aleksandrovic Blok (San Pietroburgo, 28 novembre 1880 – Pietrogrado, 7 agosto 1921) è stato un poeta e drammaturgo russo, forse il più grande poeta dell'epoca d'argento russa (Epoca d'argento della poesia russa è un termine tradizionalmente applicato, dai filologi russi, al periodo che va dall'ultimo decennio del XIX secolo e ai primi due o tre decenni del XX).
Blok nacque in una famiglia di raffinati intellettuali. Alcuni dei suoi parenti erano letterati, il padre era professore di diritto a Varsavia, e il nonno materno rettore dell'Università statale di San Pietroburgo. Dopo la separazione dei genitori Blok andò a vivere con alcuni parenti dell'alta società nella villa di Šachmatovo, nei dintorni di Mosca, dove scoprì il pensiero filosofico dello zio Vladimir Solov'ëv e i versi di quelli che allora erano ancora dei poeti semisconosciuti, Fëdor Ivanovic Tjutcev e Afanasij Afanas'evic Fet. Queste influenze finirono per essere fuse e rielaborate nelle armonie dei suoi primi scritti, poi raccolti nel volume Ante Lucem.

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Si innamorò di Ljubov (Ljuba) Mendeleeva (figlia del grande chimico Dmitrij Mendeleev. Inventore della tavola periodica degli elementi, a differenza di altri studiosi fornì un sistema di classificazione che prevedeva le caratteristiche di elementi non ancora scoperti) e la sposò nel 1903. In seguito lei lo coinvolse in una complessa relazione di amore-odio con il suo amico, il poeta simbolista Andrej Belyj. Blok dedicò a Ljuba un ciclo di poesie che finirono per dargli la fama, Stichi o prekrasnoi Dame (Versi sulla bellissima dama) (1904). In quest'opera egli trasfigura sua moglie in una visione senza tempo dell'anima femminile e dell'eterno femminino (la Sophia degli antichi greci, secondo l'insegnamento di Solov'ëv).

Le immagini mistiche e idealizzate presenti nel suo primo libro aiutarono Blok a diventare il capofila del movimento simbolista russo. La prima poesia di Blok è dotata di una musicalità impeccabile e ricca di sonorità, ma in seguito egli tentò di introdurre delle strutture ritmiche più azzardate ed irregolari. Era dotato di una potente e naturale ispirazione e spesso tratteggiava delle immagini indimenticabili e quasi da sogno pur partendo dalle cose più banali che lo circondavano e da avvenimenti privi in sé di importanza (Fabrika, 1903). Le poesie dell'età matura furono spesso basate sul conflitto tra la visione platonica della bellezza ideale e la deludente realtà fatta di orribili periferie industriali (Neznakomka, 1906).
Con la sua successiva raccolta di poesie, La Città (1904-1908), tracciò un ritratto di San Pietroburgo molto misterioso e dal carattere espressionista. Le raccolte seguenti, Faina e Maschera di Neve, contribuirono ad accrescere la sua fama in modo incredibile. Venne spesso paragonato ad Aleksandr Puškin e tutta l'Epoca d'argento della poesia russa finì per essere talvolta definita L'epoca di Blok. Negli anni '10 del XX secolo Blok godeva della quasi unanime ammirazione dei colleghi letterati e la sua influenza sui poeti più giovani rimase in pratica ineguagliata. Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, e Vladimir Nabokov scrissero diverse poesie in suo onore.

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Nell'ultima parte della sua vita, Blok si concentrò soprattutto su temi politici, riflettendo sul destino del suo paese (Vozmezdie, 1910-21; Rodina, 1907-16; Skify, 1918). Influenzato dalle teorie di Solov'ev, si fece prendere da vaghe paure di tipo apocalittico, alternando speranza a disperazione. "Sento che sta per succedere un grande evento, ma non mi è dato sapere esattamente cosa sia né quando accadrà.", scrisse sul suo diario nell'estate del 1917. Tra la sorpresa di molti dei suoi ammiratori accettò la Rivoluzione d'ottobre come l'atto finale di queste sue apocalittiche elucubrazioni.

Blok espresse il suo punto di vista sulla rivoluzione nell'enigmatico I Dodici (1918). Il lungo poema è una delle opere più discusse di tutta la letteratura russa. Descrive la marcia di dodici soldati bolscevichi (dodici come gli apostoli che seguirono Cristo) per le strade di San Pietroburgo durante la rivoluzione, mentre un fortissimo vento invernale del nord infuria attorno a loro.
I Dodici allontanò subito Blok dalla gran parte dei suoi ammiratori (che lo accusarono di aver mostrato un terribile cattivo gusto), mentre i bolscevichi lo disprezzavano per il misticismo e l'ascetismo mostrati in precedenza. Cadde in uno stato di depressione e si ritirò dalla scena pubblica.
Tuttora si discute su quale sia stata la vera causa della morte di Blok a soli 40 anni. Alcuni sostengono che morì a causa della carestia del 1921 provocata dalla guerra civile russa. Altri continuano ad attribuirla a quella che ambiguamente definiscono mancanza d'aria. Alcuni mesi prima Blok si era esibito in una celebre lettura pubblica di Puškin, che considerava una figura simbolica capace di riunire le due anime della Russia.

Alexandr Blok, da tutti considerato uno dei più importanti poeti del secolo scorso, concepì la propria produzione poetica come fosse composta da tre volumi. Il primo volume contiene le sue prime poesie sulla Bellissima Dama; il suo colore dominante è il bianco. Il secondo volume, dominato invece dal colore blu, i commenti sull'impossibilità di raggiungere l'ideale che aveva desiderato. Il terzo, che contiene le poesie del periodo pre-rivoluzionario è permeato da un rosso fiammeggiante.
Nella poesia di Blok i colori sono fondamentali perché trasmettono i segni mistici delle cose che vanno oltre l'esperienza umana. Il blu o il viola sono i colori della frustrazione, quando il poeta capisce che la sua speranza di vedere la Dama andrà delusa. Il giallo, colore dei lampioni della strada, delle finestre e dei tramonti, è il colore del tradimento e della banalità. Il nero cela qualcosa di terribile, pericoloso ma potenzialmente capace di rivelazioni esoteriche.
Sulle orme di Fëdor Tjutcev, Blok sviluppò un complesso sistema di simboli poetici. Nelle sue prime opere, ad esempio, vento sta per l'appressarsi della Dama, mentre mattino o primavera sono i momenti in cui è più probabile che si riescano ad incontrare. Inverno e notte sono i terribili momenti in cui il poeta e l'amata sono lontani l'uno dall'altra. Palude e fango simboleggiano invece la vita di tutti i giorni, senza che sia illuminata da una luce spirituale.

Quando frequentavo la Russia per lavoro, un diplomatico locale, parlando dei grandi scrittori russi mi disse che lui amava Blok; il fatto, allora, non mi colpì, ma recentemente ho riletto le poesie di Blok che ho trovato incantevoli.

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Sachmatovo, casa di campagna di Blok presso Mosca

Opere tradotte in italiano

  • Poesie sulla bellissima dama, Milano, a cura di Bruno Osimo, 2023
  • Ante Lucem, Milano, a cura di Bruno Osimo, 2023
  • Poesie, Roma, a cura di Bruno Carnevali, 1977
  • Poesie, Milano, a cura di Angelo Maria Ripellino, 1960
  • Poesie, Firenze, a cura di Dan Danino Di Sarra, 1951
  • Drammi lirici, Einaudi, 1997
  • L'intelligenza e la rivoluzione, Kelkoo, 1997
  • La fidanzata di Lillà, Ed Riuniti, 1996


Aleksandr Blok il maggiore poeta simbolista russo – era nato a Pietroburgo nel 1880. Esordì con il ciclo Ante lucem (1898-1900), di cui facevano parte poesie pubblicate più tardi nel volume Versi sulla Bellissima Dama (1905). In questi versi Blok, seguendo le dottrine del poeta filosofo Vladimir Solovjov (1853-1900), canta la quintessenza umana della femminilità eterna, invoca la Sposa celeste in un rapimento estatico, saturo di sensualità, di teneri sospiri, di sensazioni ineffabili. Il fallimento della rivoluzione del 1905, in cui aveva creduto, infrange nel poeta le speranze di un rinnovamento spirituale e politico della società, e a partire dal 1906 la sua voce rivela delusione e amarezza. L’ironia, unita a un sentimento di rivolta e di insofferenza, trova posto nella sua anima ormai libera dall’estasi e dai sogni giovanili. Nel dramma La baracca dei saltimbanchi, rappresentato a Pietroburgo nel 1906, Blok deride con spietato sarcasmo, in un susseguirsi di immagini grottesche e illusorie, le sue precedenti esperienze mistiche. Nei versi del ciclo Il mondo terribile, la Sposa celeste è ormai una creatura terrena, una prostituta. Pietroburgo è uno squallido aggregato di bettole fumose e sporche, di vecchi straccioni mendicanti, di vagabondi, di relitti alla deriva. Nel dramma La sconosciuta il sacro tempio si trasforma in una casa di tolleranza. L’amore ideale, nebuloso, ormai svanito, lascia il posto all’amore per la Russia, che Blok vede come entità concreta e divina, come una creatura sofferente. «La Russia resta sempre la stessa: un’entità lirica», scriveva alla madre nel 1909, e aggiungeva: «Qualunque cosa accada, essa resterà sempre la Russia dei miei sogni». Da questo amore, dall’entusiasmo suscitato in lui dagli avvenimenti del 1917 e soprattutto dalle giornate di Ottobre, nacquero due poemi: I dodici e Gli Sciti, entrambi scritti nel 1918. Blok sentì la «musica» della Rivoluzione, presagì l’ineluttabilità del cataclisma che avrebbe spazzato via tutte le ingiustizie del «mondo terribile», del vecchio mondo. Nei Dodici sono mirabilmente amalgamate le emozioni e i presentimenti dell’imminente lotta sociale. Nei giorni in cui lavorava a questo poema, il poeta incontrò alcuni noti esponenti del Partito comunista e così si espresse con loro: «A voi interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo l’anima della Rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi». A confermare il carattere «sacro» della Rivoluzione appare in chiusura l’immagine di Cristo, quasi in contraddizione con tutto il contenuto del poema. Cristo che avanza davanti alle dodici guardie rosse, simboleggianti gli apostoli, è un puro simbolo poetico che sta ad esprimere la benedizione etico-religiosa della Rivoluzione da parte del poeta. Tutto il poema è in movimento continuo, movimento irrefrenabile che ha un’unica direzione: «Avanti!». La ricchissima gamma di contrasti lessicali, la sequela di immagini come lampi di magnesio, le dissonanze, gli elementi polifonici che si fondono in un’armonia superiore, tutto ciò concorre a creare quel ritmo incalzante, terribile e continuo, che si fa particolarmente solenne nelle strofe finali. In questa creazione il genio musicale e pittorico di Blok raggiunge il vertice. In seguito, svanito l’ardente entusiasmo dei primi mesi della Rivoluzione, oppresso e deluso dall’arido e pedantesco apparato burocratico che lo circondava, avvilito da difficoltà e incomprensioni, il poeta si abbandonò a un cupo pessimismo. Stanco e isolato si spense il 7 agosto del 1921. (Paolo Statuti)

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La copertina del libro di Blok Teatro (1909)


Giorgio Linguaglossa
15 aprile 2021
Simbolismo, post-simbolismo, acmeismo (Il suo nome deriva dal greco acmé -culmine. Nacque in opposizione al simbolismo, sviluppando una diversa tematica e un nuovo stile espressivo fondati sulla chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti e sullo studio dei valori formali del verso), adamismo, futurismo nella Russia di inizio novecento
L’arrivo del simbolismo in Russia segna l’arrivo del modernismo e il rinnovamento della poesia russa di inizio novecento che, da una posizione arretrata si aggiudicherà una posizione di punta in ambito europeo. Aleksandr Blok è il poeta russo universalmente riconosciuto dai suoi contemporanei come il maggiore e più influente poeta russo della sua epoca. La fioritura del simbolismo russo dura fino al 1910 quando irrompono sulla scena poetica gli acmeisti che fondono la rivista “Apollon”. Da questa data in poi ha inizio quella che è passata sotto il nome di l’epoca d’argento della poesia russa. Il 1910 può davvero essere considerato l’anno in cui nuove spinte emergono sulla scena letteraria russa; Etkind lo considera addirittura l’anno di nascita dell’acmeismo (Etkind, 1989: 549), anche se questa data è anteriore alla parola acmeismo stessa. Inoltre, nel 1910 non esistono già più le riviste letterarie maggiormente legate al simbolismo: «Vesy» («La bilancia») e «Zolotoe runo» («Il vello d’oro») avevano chiuso i battenti nel 1909, sostituite sulla scena letteraria da «Apollon» («Apollo»), la rivista che, nata sotto l’egida dei simbolisti, finirà per ospitare sulle sue pagine i manifesti acmeisti di Gumilëv e Gorodeckij. Il 1910, infine, è l’anno in cui M. Kuzmin pubblica, proprio su «Apollon», il manifesto O prekrasnoj jasnosti (Sulla magnifica chiarezza), che invoca un ritorno della scrittura alla logica, alla chiarezza espositiva e alla chiarezza della metafora. Nell’ottobre del 1911 viene fondata la «Gilda» che riunisce tutti i poeti che si consideravano genericamente post-simbolisti, tra di essi ci sono varie inclinazioni e direzioni di ricerca ma il distacco consapevole dalla poetica simbolista si verificherà con il vero e proprio superamento del simbolismo con gli acmeisti Gumilëv, Achmatova e Mandel’štam. Nel marzo del 1912, per iniziativa di Sergej Gorodeckij e Nikolaj Gumilëv, ha inizio l’acmeismo, di cui fanno parte, secondo il canone, Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Michail Zenkevic e Vladimir Narbut, oltre ai due promotori. «Le scuole letterarie non vivono di idee, ma di gusti: portare con sé un mucchio di idee nuove, ma non portare nuovi gusti significa non formare una nuova scuola, ma solo iniziare una polemica. Al contrario, si può fondare una scuola con i soli gusti, senza nessuna idea. Non le idee, ma i gusti degli acmeisti si sono rivelati mortali per il simbolismo». (Mandel’štam) Quello che suggerisce Mandel’štam, dunque, è di non interpretare le correnti letterarie come “visioni del mondo”, perché la differenza in ambito poetico, e letterario in generale, si marca sul gusto, sullo stile, sui testi. L’adamismo non è sopravvissuto proprio perché si pretendeva portatore di una particolare visione del mondo, e mirava a restituirla in forma poetica, mentre l’acmeismo era una vera e propria scuola poetica. Se si guarda anche il manifesto di Mandel’štam, si vede come in uno dei suoi punti cardine, in cui si esprime con più forza l’opposizione al simbolismo, non si ragioni su un piano di visione del mondo, ma su un piano puramente letterario. Il punto in questione è la dichiarazione «A=A: che tema poetico meraviglioso» (Mandel’štam, 2016b); A=A non è, nel manifesto, un precetto filosofico, ma un tema poetico. Il gruppo acmeista non nasce intorno a una dichiarazione programmatica di poetica, né si dà inizialmente delle regole di poetica elencate in un manifesto, ma parla direttamente con i testi poetici.

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“Notte, strada, fanale, farmacia”

Notte, strada, fanale, farmacia,
una luce assurda ed appannata.
Pur se ancora vivrai venticinque anni -
sarà sempre così. Non c’è rimedio.

Tu morirai – comincerai di nuovo,
e tutto riaccadrà come una volta:
gelido incresparsi del canale,
notte, farmacia, strada, canale. 

Russia”

“Che egli ti adeschi e ti inganni, —
non ti perderai, non perirai,
e solo l’apprensione annebbierà
le tue bellissime fattezze…

Ebbene? Per un affanno di più,
per una lacrima il fiume è più fragoroso,
ma tu sei sempre la stessa: foreste e campi,
e fazzoletto a rabeschi fin sopra le ciglia…”

Gli Sciti”

“Voi siete milioni. Noi nugoli, e nugoli e nugoli.
Provatevi a combattere con noi!
Sì, gli Sciti noi siamo! Noi siamo gli Asiatici
dagli occhi guerci e cùpidi!
Per voi i secoli, per noi una sola ora.
Noi, come servi obbedienti,
facemmo da scudo fra due razze ostili
i Mongoli e l’Europa!”
“Venite a noi! Dagli orrori della guerra
venite agli abbracci pacifici!
Finché non è tardi — la spada nel fodero,
compagni! Diventeremo fratelli!”

La sconosciuta

Nelle sere, nei ristoranti
l’aria calda è selvaggia e sorda
e governa le grida degli ubriachi
lo spirito dannoso e primaverile.

In lontananza, sulla polvere dei vicoli,
sul tedio delle dacie fuori città
sembra quasi d’oro la ciambella del fornaio
e risuona un pianto di bambini.

Ed ogni sera, al di là delle sbarre,
con le bombette alla ventitrè,
passeggiano con le dame in mezzo ai borri
navigati bontemponi.

Sul lago scricchiolano gli scalmi
e gridolini femminili risuonano
e nel cielo, a tutto abituato,
senza senso si incurva il disco.

E ogni sera l’unico amico
nel mio bicchiere si riflette
e dalla misteriosa e aspra umidità
è, come me, stordito e sottomesso.

Accanto ai tavoli vicini
se ne stanno assonnati lacchè.
E gli ubriachi con occhi di coniglio
gridano: ”In vino veritas!”

E ogni sera, all’ora stabilita
(o è soltanto un mio sogno?)
una figura di fanciulla, avvolta nelle sete,
si muove nella finestra nebbiosa.

E lentamente, passando in mezzo agli ubriachi,
sempre senza accompagnatori, sola,
esalando profumi e nebbie,
si siede vicino alla finestra.

E sanno di antiche credenze
le sue elastiche sete
ed il cappello con le piume da lutto
e la sottile mano inanellata.

E, raggelato dalla strana vicinanza,
scruto dietro il velo scuro
e vedo una riva incantata
e una incantata lontananza.

Profondi misteri mi sono affidati,
mi è stato affidato il sole di qualcuno
e tutti i meandri dell’animo mio
penetrò un aspro vino.

E le oblique piume di struzzo
dondolano nel mio cervello
e gli azzurri occhi senza fondo
fioriscono su una riva lontana.

Giace nella mia anima un tesoro
e la chiave solo a me è affidata!
Hai ragione, mostro ubriaco!
Lo so: la verità è nel vino!

(24 aprile 1906)

Aveva aspettato tutta la vita.
Era stanca di aspettare.
E sorrise. E si chinò.
Una ciocca non raccolta di capelli
calò sulle spalle scure.

Il mondo non è né grande né ricco.
E non bisognerebbe guardare con sguardo scuro!
Ma la gente dice solo
che bisogna aspettare ed essere docili…

Ma qua un piffero
canta straziante, dolente, delicato:
“Dondola la culla di un’altra,
accarezza il bimbo non amato…”

Io anche sono qui. Col mio destino,
sulla lira adirata come una scure.
Così sottomesso e rabbioso.
Faccio affari nei mercati del mondo…

Credo alla foschia dei tuoi capelli
e alla tua magnificenza.
Il mio animo orfano – il tuo cane fedele,
fa risuonare ai tuoi piedi la catena…

Ed ecco di nuovo, ecco di nuovo,
incontrandomi con questo sguardo scuro,
voglio chiamarti per nome,
respirare e vivere con te accanto…

Sogno! Cos’è il sonno della via?
Veleno – dietro altro veleno…
Io tradirò te, come quel sogno
senza tradire, senza fingere…

E’ divertente vivere! E’ divertente sapere
che sotto la luna non c’è nulla di nuovo!
Che ad un morto è concesso di generare
una parola brulicante di vita!

E nessuno si preoccupa
di ciò che io darò alla gente, di ciò che tu hai dato a me
ma la gente – sulla lapide
scriverà come epitaffio – Poeta.

(13 gennaio 1908)

Oh primavera senza fine e senza limiti
senza fine e senza limiti è il sogno.
Ti riconosco, vita! Ti accolgo!
E ti saluto col suono dello scudo!

Ti accolgo, fallimento
e, fortuna, a te il mio saluto
nella incantata regione del pianto,
nel mistero del riso non c’è vergogna!

Accolgo le dispute insonni,
il mattino nelle scure cortine della finestra
affinché i miei occhi infiammati
irriti ed inebri la primavera.

Accolgo deserti paeselli!
E pozzi delle città della terra!
L’illuminata vastità del cielo
e la sofferenza del lavoro dei servi!

E ti incontro sulla soglia
col vento impetuoso nei riccioli di serpente,
col nome enigmatico di Dio
sulle labbra fredde e serrate…

In previsione di questo incontro ostile
non abbasserò lo scudo…
Tu non allargherai mai le spalle
ma sopra di noi – un sogno inebriante!

E guardo e misuro l’ostilità
odiando, maledicendo e amando!
Nonostante la sofferenza, la morte – lo so –
fa lo stesso: io ti accolgo!

(14 ottobre 1907)

Quando voi state sul mio cammino,
così viva, così bella
ma così tormentata
parlate sempre di tristezza,
pensate alla morte,
non amate nessuno
e disprezzate la vostra bellezza.
Cosa dire? Potrò mai offendervi?

Oh, no! Ma io non sono un violentatore
né un ingannatore e nemmeno un superbo
anche se so molto,
penso troppo fin dall’infanzia
e sono molto preso da me stesso.
Ecco, io sono un poeta,
un uomo che chiama tutto col nome,
che sottrae l’aroma ad un fiore vivo.

Per quanto voi parliate di tristezza,
per quanto riflettiate sulle fini e sugli inizi,
tuttavia io oso pensare
che avete soltanto quindici anni.
E per questo io vorrei
che vi innamoraste di un uomo semplice
che ama la terra e il cielo
più che i discorsi in rima e non in rima
sulla terra e sul cielo.

Veramente, sarò felice per voi
perché solo un innamorato
ha diritto al titolo di essere umano.

(6 febbraio 1908)

Lei venne dal gelo,
rossa in viso,
riempì la stanza
dell’aroma dell’aria e dei profumi,
con la voce squillante e con ciance irriguardose
a paragone del mio lavoro.

Senza indugio lasciò cadere sul pavimento
il poderoso tomo della rivista d’arte
e subito cominciò a sembrarmi
che nella mia grande stanza
c’era molto poco spazio.

Tutto questo era vagamente spiacevole
ed abbastanza assurdo.
Eppure lei ebbe voglia
che le leggessi “Macbeth” ad alta voce.

Arrivando appena fino alle bolle della terra,
di cui non posso parlare senza agitazione,
io avvertii che anche lei era emozionata
e guardava attentamente nella finestra.

E’ venuto fuori che un grande gatto colorato
stesse appiattito sul bordo del tetto
in agguato dei colombi che si baciavano.

Io mi arrabbiai soprattutto perché
non ci baciavamo noi ma i colombi
e perché se n’erano andati i tempi di Paolo e Francesca.

(6 febbraio 1908)

Ricordo le lunghe sofferenze:
al di là della finestra la notte finiva di consumarsi;
le sue mani serrate
albeggiavano appena alla luce del giorno.

Tutta la vita, vissuta invano,
torturava, umiliava, bruciava.
Ma là, crescendo come un fantasma,
il giorno abbozzò le cupole;

e sotto la finestrella si infittirono
i passi veloci dei passanti;
e nelle grigie pozzanghere si scatenavano
i cerchi sotto le gocce di pioggia;

e il mattino durava, durava…
ed era pesante una inutile domanda
e nulla fu risolto
dall’acquazzone primaverile delle lacrime burrascose.

(4 marzo 1908)

Sono inchiodato al banco di una trattoria.
Sono ubriaco da un bel po’. Per me – è tutto uguale.
Ecco la mia felicità – sulla troika
è stata portata via verso un fumo argentato…

Vola sulla troika, annegò
nella neve dei tempi, nella lontananza dei secoli.
E sommerse soltanto l’anima
con un velo argentato da sotto i ferri dei cavalli.

Nel buio sordo lancia scintille
per tutta la notte, per tutta la notte luce grazie alle scintille.
Un sonaglietto balbetta sotto l’arco
sul fatto che la felicità se n’è andata via.

E soltanto la bardatura dorata
si vede per tutta la notte…per tutta la notte si sente…
ma tu, anima…anima sorda…
sei ubriaca fradicia…sei ubriaca fradicia…

(26 ottobre 1908)

Il coraggio, le imprese, la gloria
dimenticavo sulla terra piena di dolore
quando il tuo volto nella semplice cornice
brillava davanti a me sul tavolo.

Ma venne il momento e tu andasti via da casa.
Io gettai nella notte l’anello nuziale.
Ad un altro avevi consegnato il tuo destino
ed io dimenticai il volto tanto bello.

Volavano i giorni, turbinando come sciame maledetto…
Il vino e la passione tormentavano la mia vita…
E ti ricordai davanti al leggio
e ti chiamai come chiamavo la mia giovinezza.

Io ti chiamavo ma tu non ti voltasti,
versavo lacrime ma tu non hai avuto indulgenza.
Ti avvolgesti malinconica in un impermeabile blu,
te ne andasti via di casa nella notte umida.

Non so dove rifugio alla tua superbia
tu, cara, tu, dolce, hai trovato…
Io dormo profondamente e sogno il tuo impermeabile azzurro
nel quale nella notte umida te ne andasti…

Ma quale sognare la tenerezza, la gloria,
tutto si è compiuto, la giovinezza è passata!
Il tuo viso nella sua semplice cornice
con la mia mano ho tolto dal tavolo.

(30 dicembre 1908)

Lentamente impazzivo
a quella porta che bramo.
La tenebra sostituiva il giorno primaverile
e accendeva soltanto la sete.

Io piangevo, stremato dalla passione,
e cupamente smorzavo i gemiti.
Ormai si è sdoppiata, muovendosi appena,
l’anima folle, malata.

E si introduceva nel silenzio
della mia anima ormai folle
e colmò la mia primavera
di un’onda nera e silenziosa.

La tenebra sostituiva il giorno primaverile,
si raggelava il cuore sulla tomba.
Lentamente impazzivo,
freddamente pensavo all’amata.

(marzo 1902)

Sulla ferrovia
A Maria Pavlovna Ivanova

Sotto il terrapieno, in un fosso non falciato,
giace e guarda, come fosse viva,
col fazzoletto colorato, gettato sulle trecce,
bella e giovane.

A volte andava con passo cerimonioso
incontro al rumore e al fischio oltre il bosco vicino.
Percorrendo tutta la lunga banchina,
aspettava, agitata, sotto la tettoia.

Tre occhi luminosi in arrivo,
rossore più delicato, una ciocca più riccia:
forse qualcuno dei passeggeri
guarderà più attentamente dai finestrini…

I vagoni andavano lungo la consueta linea,
sobbalzavano e cigolavano;
tacevano quelli gialli e azzurri;
in quelli verdi piangevano e cantavano.

Si alzavano in piedi assonnati dietro i vetri
e abbracciavano con sguardo uniforme
la banchina, il giardino con gli arbusti smorti,
lei, il gendarme che le stava accanto…

Solo una volta un ussaro, appoggiandosi
con mano disattenta sul velluto scarlatto,
la sfiorò con un tenero sorriso,
la sfiorò – e il treno sfrecciò via.

Così sfrecciava la giovinezza inutile,
sfinendosi in vani sogni…
La tristezza della strada, della ferrovia
fischiettava, facendo a pezzi il cuore…
Che importa – ormai da tempo è stato strappato il cuore!
Quanti inchini fatti,
quanti sguardi bramosi lanciati
negli occhi deserti dei vagoni…

Non avvicinatevi a lei con domande,
per voi è tutto uguale ma lei – ne ha abbastanza:
dall’amore, dalla sporcizia o dalle ruote
lei è schiacciata – fa male lo stesso.

(14 giugno 1910)

Ad Anna Achmatova

“La bellezza è terribile” – Vi diranno –
Voi getterete svogliatamente
lo scialle spagnolo sulle spalle,
una rosa rossa – nei capelli.

“La bellezza è semplice” – Vi diranno –
con lo scialle variopinto goffamente
coprirete il bambino
la rosa rossa – sul pavimento.

Ma, ascoltando distrattamente
tutte le parole che risuonano attorno,
Voi diventerete tristemente pensosa
e ripeterete tra voi:

“Non sono né terribile né semplice;
non sono così terribile da uccidere
semplicemente; non sono così semplice
da non sapere come è terribile la vita”.

16 dicembre 1913

Io sono Amleto. Si gela il sangue
quando la perfidia intreccia le reti
e nel cuore il primo amore è
vivo per colei che è unica al mondo.

Ofelia mia, il freddo della vita
ti portò via lontano
ed io, il principe, muoio nella terra natale
trafitto da una lama avvelenata.

(6 febbraio 1914)

Z. N. Ghippius

Quelli che sono nati in anni sordi
non ricordano il proprio cammino.
Noi – figli degli anni terribili della Russia –
non abbiamo la forza di dimenticare nulla.

Anni che inceneriscono!
C’è in voi un messaggio di pazzia o di speranza?
Dai giorni della guerra, dai giorni della libertà
c’è sui volti un riflesso sanguigno.

C’è mutismo – il rumore di una campana
costrinse a serrare le labbra.
Nei cuori, un tempo entusiasti,
c’è una fatale vacuità.

E che sul nostro letto di morte
si alzi uno stormo di cornacchie gridando
e che quelli che sono più meritevoli,
Signore, Signore, vedano il tuo regno.

(8 settembre 1914)

Dalla raccolta Stichotvorenja 1878-1921 edita a Mosca 2018

 DODICI

1
Buia sera.
Neve bianca.
Che vento!
Le gambe piega.
Che bufera –
Sulla terra intera!

Di neve e vento
Un girotondo.
Ghiaccio è il fondo.
Bufera maledetta!
Ogni passante
Scivola – ah, poveretta!

Tra due case
Una fune si tende.
Sulla fune – un cartello:
“Tutto il potere alla Costituente!”
Una vecchia piange – ahimé,
Non capirà mai perché
C’è quel cartello.
Che spreco con quel telo –
Quante pezze per i piedi dei ragazzi,
Spogliati e scalzi…

La vecchia, come una gallina,
Ha saltato un mucchio di neve.
– Oh, Benedetta Madonnina!
– Coi bolscevichi la vita è breve!

Punge il vento!
Gelo maledetto!
Un borghese al crocevia
Ha il naso nel colletto.

E questo chi è? – Lunghi i capelli
Parla a voce bassa:
– Traditori!
– La Russia al Creatore! –
Forse un letterato –
Un oratore…

E là con la zimarra –
In disparte vi tenete…
Passata è l’allegria,
Compagno – prete?

Ricordi com’era?
Sulla pancia sporgente
La croce splendeva
Per la gente…

Là una dama impellicciata
Verso un’altra s’è voltata:
– Ah, quanti pianti, quanti pianti…
Ma è scivolata
E – paff – che sederata!

Ahi, ahi!
Titatemi su!

Vento allegro,
Spietato e contento.
Rivolta i lembi,
Sferza i passanti,
Strappa, sbatte
Un grande cartello:
“Tutto il potere alla Costituente”…
E le parole porta:
…Da noi c’è stata una riunione…
…In questo androne…
…Abbiam discusso –
Abbiam deciso:
Dieci – per un’ora, venticinque – per la notte…
…Di meno – non accettare…
…Andiamo a riposare…

Tarda sera.
La strada s’è svotata.
Un vagabondo
Ha la schiena piegata,
E sibila il vento…

Ehi, pezzente!
Vieni qua –
Baciamoci…

Pane!
Chi va là?
Passa!

Cielo, cielo nero.
Rabbia, triste rabbia
Bolle in petto…
Rabbia nera, rabbia santa…

Compagno, bada!
Attento!

2
Passeggia il vento, vola la bufera.
Va dei dodici la schiera.

Le nere cinghie dei fucili,
Intorno – fuochi, fuochi, fuochi…
Berretto sgualcito, tra i denti – un mozzicone,
Sembran fuggiti dalla prigione!

Libertà, libertà,
E la croce via di qua!

Tra-ta-ta!

Che freddo, compagni, che freddo fa!

– Vanja e Katja sono insieme…
– Nella calza i soldi tiene!

– Ricco Vanja è diventato…
– Era con noi, adesso è soldato!

– Vanja, figlio di puttana, suvvia,
Prova a baciare la mia!

Libertà, libertà,
E la croce via di qua!
Katja con Vanja è occupata –
Ma che fa, che fa?…

Tra-ta-ta!

Intorno – fuochi, fuochi, fuochi…
A tracolla i fucili…

Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!

Compagno, coraggio, il fucile agguanta!
Spariamo sulla Russia Santa –

Vetusta,
Contadina,
Satolla!

E la croce via di qua!

3
Oh partirono i ragazzi,
Per servir la guardia rossa –
Per servir la guardia rossa –
E finire in una fossa!

E tu, amara sventura,
Vita gentile!
Lacero il cappotto,
Austriaco il fucile!

Per la sorte dei borghesi
Mille fuochi sono accesi,
Fuoco e sangue nel cuore –
Oh, proteggici, Signore!

4
Neve. Grida il vetturino,
Vanja con Katja vicino –
La luce del fanale
Sulle stanghe…
Ah, ah, crepa!…

Nel cappotto militare
Un balordo egli pare,
Torce e alliscia senza sosta
il baffo nero,
E scherza a cuor leggero…

Vanja è così – forte e tenace!
Vanja è così – assai loquace!
La sciocca Katja abbraccia,
E a parlare attacca…

Getta indietro la testolina,
Denti come perline…
Oh, Katja, m’è sempre piaciuta
La tua faccia paffuta…

5
Sul tuo collo, Katja,
Lo sfregio d’un coltello.
Sotto il petto, Katja,
Hai un graffio novello!

Balla un po’, amore mio!
Che gambe, santo Dio!

Biancheria di pizzo portavi –
Portala ancora!
Con gli ufficiali trescavi –
Tresca, tresca anche ora!

Eh, eh, tresca adesso!
Il cuor sobbalza in petto!

L’ufficiale, Katja, rammenti –
Non evitò una coltellata…
L’hai scordato, accidenti?
La memoria s’è offuscata?

Eh, eh, non mentire,
Con te voglio dormire!

Ghette cenere avevi,
Solo dolci raffinati,
Tra i cadetti tu sceglievi –
Ora scegli tra i soldati?

Eh, eh, pecca pure, dai!
Più leggera ti sentirai!

6
Di nuovo passa come furia
Il vetturino: vola, urla, ingiuria…

Fermo! Andrjej, da’ una mano!
Corri dietro a quel marrano!…

Tra-tarara-ta-ta-ta-ta!
Quanta neve s’è levata!…

Scappa Vanja – il bellimbusto…
Alza il cane! Mira giusto!…

Tra-tarara! Or vedrai…
……………………………….
Le donne altrui più non avrai!…

E’ scappato! Aspetta, carogna,
Finirai in una fogna!

E Katja dov’è? – Morta ammazzata!
Ha la testa crivellata!

Katja, sei contenta? – Taci…
Come una bestia giaci!…

Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!

7
Va dei dodici la schiera,
Con passo deciso.
Il povero assassino
Nasconde il suo viso…

Più veloce, senza fiato
Corre come un ossesso.
Lo scialle sul collo annodato –
Mai più sarà se stesso…

– Oh, compagno, sei afflitto?
– Hai la faccia smarrita!
– Pjetja, sembri un relitto,
Vorresti Katja in vita?

– Oh, compagni, ricordate,
Quella pupa io l’amavo…
Notti buie, ubriache
Con la pupa io passavo…

– Con lo sguardo provocava,
Eran fuochi i suoi occhi,
Sulla spalla che mostrava
C’era un neo coi fiocchi!
Dietro a lei, povero me,
Mi son perso… ahimé, ahimé!

– Cane, vuoi sonare l’organetto,
Pjetja, sei forse una donnetta?
– O forse vuoi sputare
Tutto ciò che hai nel petto?
– Controllati!
– Sta’ dritto!

– Più nessuno ormai, fratello,
I tuoi mali curerà!
Oggi più grave è il fardello
Che ciascuno porterà!

E Pjetja ha rallentato,
Or più non s’affretta…

La testa ha sollevato,
Or di nuovo sembra lieto…

Eh, eh!
Goder non è peccato!

Serrate ben le porte,
Verran saccheggi e morte!

Aprite la botte –
Gli straccioni vanno a frotte!

8
Oh tu, amara sventura!
Noia mesta,
Funesta!

Il tempo
Passerò, passerò…

La testa
Gratterò, gratterò…

I semi
Sguscerò, sguscerò…

Il coltello
Userò, userò!…

Vola, passerotto borghese!
Il sangue voglio bere
Per la mia bella,
Per le ciglia nere…

Pace, Signore, per l’anima della tua schiava…

Noia!

9
Tace la voce della città,
Il gendarme più non cammina,
Tace la torre sulla Nevà –
Non c’è più vino in cantina!

Un borghese sta al bivio,
Cela il naso nel colletto.
Un pelo irsuto lo strofina –
E’ un mite cane reietto.

Come quel cane è affamato,
Tace, non fa domande.
Come quel cane, il vecchio mondo
Ha la coda tra le gambe.

10
E’ scoppiata la tempesta,
Ovunque sconquasso!
Non distingui più una testa
A distanza d’un passo!

Di neve un grande anello,
Di neve un mulinello…

– Gesù mio, che bufera!
– Pjetja, parla seriamente!
Da cosa t’ha salvato
Quel santume dorato?
Svegliati!
Libera la tua mente –
Di sangue sei macchiato,
Katja t’ha rovinato!
– Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!

Avanti, avanti ancora,
Chi lavora!

11
…E vanno senza nome di santo
Dodici fanti.
Decisi sono a tutto,
Senza rimpianti…

D’acciaio l’armamento
Pel nemico nell’ombra…
I vicoli di pianto
La bufera inonda…
Nel soffice manto –
Lo stivale affonda…

Negli occhi ondeggia
Una bandiera.

S’odon passi
Nella sera.

Si desterà
Il feroce nemico…

La tormenta li inghiotte
Giorno e notte
Senza tregua…

Avanti ancora,
Chi lavora!

 

12
…Vanno con passo gagliardo…
– Esci dalla tua tana! –
Davanti – un rosso stendardo,
Infuria la tramontana…

Davanti – un cumulo gelato,
– Chi va là? Fuori, carogna!…
E’ solo un cane affamato
Che si gratta la rogna…

– Passa via, cane immondo,
O il mio ferro proverai!
Ti somiglia il vecchio mondo,
Passa via o perirai!

…Mostri i denti per la fame,
La tua coda nascondi,
Solo al mondo, senza pane…
– Chi va là? Ehi, rispondi!

– Chi è che regge lo stendardo?
– Oh, il cielo com’è scuro!
– S’ode un passo codardo,
Si cela dietro un muro.

– Fuggire ora che vale?
Meglio vivo restare!
– Ehi, compagno, finirai male,
Mi costringi a sparare!

Tra-ta-ta! – L’eco soltanto
Dalle case risponde…
La bufera ride intanto
Tra le candide sponde…

Tra-ta-ta!
Tra-ta-ta…

…E vanno con passo gagliardo,
Dietro – un cane affamato,
Davanti – con lo stendardo
Di sangue imbrattato,
Dai proietti risparmiato,
Con passo dolce e lieve
Tra mille perle di neve,
Il capo ornato di cisto –
Chi li guida? – Gesù Cristo.

(Traduzione di Paolo Statuti)



30 novembre 2023 - Eugenio Caruso

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Tratto da

1

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