Il grande Qubilay Khan e l'incontro con Marco Polo.


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.

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Qubilay khan

Balzato agli onori delle cronache medievali grazie al racconto di Marco Polo, il più grande imperatore mongolo dopo Gengis khan fu per molto tempo reputato una figura immaginaria. Eppure, il nipote del grande Gengis fu tutt’altro che una leggenda: piuttosto, portando a termine con la conquista della Cina l’opera intrapresa dal nonno, svolse un ruolo da protagonista sulla scena della Storia, divenendo un personaggio capace di influenzare l’intera epoca in cui visse.
Il futuro fondatore della dinastia Yuan nacque in luogo imprecisato il 23 settembre del 1215, lo stesso anno in cui Gengis conquistava Beijing. Suo padre Tolui fu il più giovane figlio che Gengis ebbe con la diletta consorte Börte che, insieme a Djuci, Djagatay e Ögödei, ricevette i più alti onori e il diritto di successione per le cariche più rilevanti: nonostante si fosse distinto come il miglior guerriero e condottiero di tutto il suo clan, Gengis preferì affidare la sua eredità al terzogenito Ögödei, riconoscendo nella sua scaltrezza e nella sua abilità politica le doti indispensabili a sostenere la carica di gran khan dei mongoli.
L’esclusione di Tolui dalla successione lasciava di riflesso ben poco margine alle prospettive di Qubilay, destinato, in qualità di membro di un ramo collaterale, a un ruolo di secondo piano. In pochi avrebbero scommesso che il piccolo sarebbe diventato la figura più luminosa dell’impero mongolo. Tra questi, la madre Sorghaghtani Beki, una signora appartenente alla tribù dei kerait che le fonti coeve dipingono come donna dotata di eccezionali capacità e intelligenza. Di lei scrissero Giovanni di Pian del Carpine, che la dipinse come «la signora più famosa dei tartari a eccezione della madre dell’imperatore», lo storico persiano Rashid al-Din, che la tratteggiò come «estremamente intelligente e abile», capace «di innalzarsi al di sopra di tutte le donne del mondo» e il medico ebreo Bar Hebraeus, che la elogiò come «una regina che educa i suoi figli così bene che tutti i principi si stupivano per le sua capacità e il suo carisma».
E in effetti, va detto che tutti e quattro i figli di colei che un poeta anonimo identificava come «superiore agli uomini» fecero una gloriosa carriera, grazie soprattutto ai maneggi materni, che li preservarono da una grigia esistenza: Möngke, il più vecchio, diverrà Khaghan dal 1251 sino al 1259, anno della sua morte; Hülegü avrebbe distrutto la schiatta abbaside che dominava in Persia e in buona parte del Medio Oriente, soppiantandola con una propria dinastia; Arigh Böke, il più giovane, avrebbe regnato sulla Mongolia. Qubilay avrebbe sostituito Möngke sul trono del khanato portando la parabola imperiale mongola al suo acme.
Il piccolo crebbe sotto lo sguardo vigile della madre, che si preoccupò di fornirgli quell’educazione che il padre, perennemente occupato nelle campagne militari, non poté garantirgli. Fu dunque la volitiva Sorghaghtani a preoccuparsi che il figlio imparasse a cavalcare e a scoccare con l’arco, inculcandogli il piacere per le battute di caccia che accompagnerà il futuro imperatore lungo tutto l’arco della propria esistenza. Dopo aver trasformato il piccolo in un perfetto cavallerizzo mongolo, fu sempre la madre a insistere affinché Qubilay imparasse a leggere e scrivere, affidandolo alle cure dell’uiguro Tolochu. L’assimilazione dei modi cinesi, di cui sappiamo per certo che Qubilay fosse imbevuto, fu altresì dovuta alla sagacia di questa straordinaria donna.
Qualche anno dopo la morte del marito Tolui, avvenuta nel 1231 secondo alcuni in circostanze eroiche, Sorghaghtani fu indotta a malincuore ad assumere il controllo del Chen-Ting, un territorio situato nel Nord della Cina nell’odierna provincia dell’Hopei. Ritrovatasi così signora di una popolazione di agricoltori cinesi piuttosto che di pastori nomadi mongoli, la nobildonna si rese conto che la politica di sfruttamento dei contadini e di saccheggio del territorio appariva miope, se non disastrosa. Sorghaghtani intuì allora che se avesse favorito un’economia agricola, invece di imporre l’economia pastorale mutuata dalla steppa, avrebbe fornito un decisivo contributo alle entrate statali, che sarebbero così risultate decisamente più floride.
Qubilay fece suo l’insegnamento materno, e quando ebbe l’età per governare si inserì decisamente nel solco tracciato dalla madre, che trasmise al figlio anche un’altra virtù, che sarà caratteristica del modo di governare del futuro imperatore, ovvero la tolleranza religiosa. Sebbene la donna fosse una nestoriana, non discriminò mai le altri religioni che, giocoforza, entrarono nell’ambito dell’impero mongolo (come dimostrarono gli elogi provenienti da ambiti culturali significativamente diversi quali il cristianesimo, l’Islam e l’ebraismo), preoccupandosi soprattutto di favorire taoismo e buddismo per conquistarsi la benevolenza dei nuovi sudditi cinesi.
Qubilay aveva tutti gli strumenti necessari per affrontare con spalle robuste il battesimo del comando, quando nel 1236 lo zio Ögödei gli offrì l’appannaggio dello Hsing-chou, un’area situata nell’Hopei al cui interno vivevano circa 10.000 famiglie cinesi. Solo quando gran parte delle famiglie a lui affidate, vessate dalle condizioni di sfruttamento loro imposte dai funzionari, produssero una sorta di esodo che spopolò la regione, Qubilay comprese che era il momento di occuparsi direttamente degli affari. Così, intervenendo in prima persona sostituì gli amministratori e gli esattori mongoli che tanti danni avevano provocato, sostituendoli con gli an-ch’a shih, i “Commissari della Pacificazioni” scelti tra la popolazione cinese. La mossa diede i suoi frutti: le tasse furono ripartite equamente, gli arruolamenti straordinari vennero aboliti mentre una rinnovata fiducia nei confronti del governatore indusse gli esuli a rientrare in patria ripopolando così la regione, che rischiava un pericoloso depauperamento.
Fu più o meno nello stesso periodo che il ragazzo si contornò di quella corte multiculturale che diverrà un marchio caratterizzante della sua idea di governo. Cristiani nestoriani, buddhisti tibetani e musulmani dell’Asia Centrale l’accompagneranno per tutta la sue esistenza, influenzandone le scelte politiche, militari e sociali. In questo gruppo eterogeneo spiccarono il monaco buddhista Hai-yün e soprattutto i cinesi Chao Pi e Tou Mo che, entrati a far parte del suo entourage a partire dagli anni quaranta del XIII secolo, insegnarono al giovane nobile mongolo la dottrina confuciana esponendogli i doveri e le virtù del sovrano.
Non deve stupire che questi cinesi fossero desiderosi di favorire un monarca straniero che, in fin dei conti, discendeva da una stirpe di conquistatori: la Cina stessa, da almeno trecento anni, vantava una tradizione di sovrani non autoctoni; in più, nell’orizzonte di costoro risiedeva la speranza che attraverso un processo di sinizzazione Qubilay e i suoi mongoli migliorassero il loro approccio con l’elemento cinese, mitigando così attraverso i loro consigli la condizione del popolo al quale appartenevano. Nonostante i loro sforzi, Qubilay mantenne sempre una costante prudenza nei confronti dei precetti confuciani, anche a causa della sostanziale ignoranza della lingua cinese scritta e la rudimentale conoscenza di quella parlata. Incapace di penetrare a fondo le dispute degli intellettuali, che filtrava sempre attraverso una farraginosa traduzione mongola, Qubilay rimase così immune alle loro fascinazioni, mantenendo un atteggiamento di sostanziale neutralità che gli permise, di contro, di avvalersi dell’apporto anche di consiglieri provenienti da altri ambiti culturali, all’insegna di un buon senso che lo orientò a servirsi di chiunque fosse in grado di fornire utili suggerimenti per il suo governo.
Mano a mano che la sua corte si ingrossava, il giovane non venne meno ai suoi obblighi nuziali, sposando in prime nozze una non meglio identificata Tegülün, cui seguiranno nell’ordine Chabi, Tarakhan e Bayaghukhin. Fatta eccezione per la seconda moglie Chabi, ben poco si sa delle altre consorti. L’interesse mostrato dalle fonti per Chabi dunque, fu il risultato dell’influenza che ella seppe suscitare nel marito sin dal giorno delle nozze, che verosimilmente furono celebrate intorno al 1240, trascinando lo sposo verso posizioni tibetane di cui la donna era fervente seguace, e convincendo Qubilay ad approfondire quella dottrina.
Il ruolo politico del giovane mongolo sullo scacchiere generale dell’impero continuava a rimanere secondario: e tale sarebbe rimasto se la fortuna della casata di Tolui non avesse subito un’imprevista impennata. Ad accelerare questa contribuì, neanche a dirlo, la dipartita di Ögödei, avvenuta innanzi tempo nel 1241. Sebbene Ögödei avesse designato come successore il nipote Shiremün, sua moglie si impuntò affinché salisse sul trono il figlio Güyük, promuovendo così un’elezione irregolare che gettò discredito nella casata. Sorghaghtani seppe approfittare di quel malcontento iniziando a tessere segrete alleanze con gli altri clan, allo scopo di rovesciare il governo di chi era riconosciuto come una sorta di usurpatore: trovò così forti adesioni in Baku, il Signore dell’Orda d’Oro che aveva avuto dei dissapori con Güyük già durante la campagna di Russia intrapresa ai tempi di Gengis. Nel 1247 Güyük, che nel frattempo si era dato parecchio da fare nell’ingrandire l’impero (era lui il sovrano che incontrò Giovanni da Pian del Carpine quando questi arrivò fino alla corte orientale), decise che era giunto il momento di togliersi dai piedi il rivale interno più pericoloso. Radunato così un esercito, attaccò di sorpresa Baku, il quale fu avvertito del piano proprio da Sorghaghtani, decisa nel frangente a giocarsi il tutto per tutto e rischiando di apparire così come traditrice nel caso che Güyük avesse vinto.
Il fato decise a favore della nobildonna: il gran khan morì nel corso della sua marcia di avvicinamento mentre Baku, sopravvissuto al pericolo, diveniva il membro più anziano della terza generazione di discendenti di Gengis khan, vale a dire colui che avrebbe espresso il giudizio più autorevole in merito all’elezione del nuovo khan. Con un alleato di quel calibro e sapendo di poter contare sull’appoggio dei propri figli, Sorghaghtani era più che certa che quando sarebbe giunto il momento, il nuovo signore dei mongoli sarebbe uscito dall’urna di Tolui. Fu esattamente ciò che avvenne: il kuriltay del 1251 sancì l’elezione del figlio primogenito di Sorghaghtani, Möngke, il quale assunse il titolo di khaghan. Se quell’intronizzazione fece felice la madre, che finalmente coronava un sogno inseguito a lungo, altrettanto compiaceva i fratelli del nuovo imperatore, che si vedevano così proiettati a giocare un ruolo da protagonisti nelle vicende mongole.
Hülegü fu il primo a beneficiare della nuova condizione famigliare: fu infatti inviato nel 1256 a oriente a coprirsi di gloria nella “pacificazione” dei territori islamici. Quindi fu il turno di Qubilay. Möngke, che accarezzava il progetto della conquista del regno meridionale dei Sung, lo volle al suo fianco nell’impresa. Considerato che un attacco con direttrice nord-sud sarebbe stato inefficace se non addirittura fallimentare, il gran khan e i suoi consiglieri optarono per una strategia che prevedesse l’apertura contemporanea di più fronti. Qubilay si ritrovò così a comandare l’assalto verso il regno di Ta-li, nell’odierno Yünnan, con lo scopo di creare una testa di ponte da cui minacciare da occidente la dinastia Sung. Fu dunque con una campagna in una terra remota, tradizionalmente lontana dei giochi del regno di Mezzo che si consolidò la fama militare del nostro eroe. Sino a quel momento Qubilay si era limitato a consolidare il proprio potere nella Cina del Nord, espandendo il suo appannaggio anche nelle regioni dell’Honan e dello Shensi. Per ovviare alle difficoltà del controllo di quei territori, egli istituì delle fattorie militari, le t’un-t’ien, attraverso le quali le truppe impiegate per l’occupazione non si sarebbero limitate a ricoprire il ruolo di forza d’invasione difficilmente rifornibile, ma si sarebbero trasformate in agricoltori autosufficienti, capaci così di mantenere in maniera autonoma i presidi e le guarnigioni loro affidate.
Fu forse sulla scorta di tale sagacia e non solo per raccomandazione famigliare che finalmente, a partire dal luglio del 1252, a trentasei anni suonati gli veniva affidata la responsabilità di un obiettivo militare vitale. Proprio perché l’opportunità di dimostrare la sua capacità di comando era giunta in età matura (suo fratello Möngke guidava eserciti già all’età di vent’anni), Qubilay non aveva nessuna intenzione di lasciarsela sfuggire. Si avvalse così del contributo di Uriyangkhadai, uno dei maggiori talenti militari dell’impero mongolo – e per inciso figlio di Subötei – con l’ausilio del quale preparò la campagna con meticolosità quasi maniacale. Nella tarda estate del 1253, radunate le truppe a Lint’ao, nella provincia nord-occidentale dello Shensi, iniziò la marcia che in direzione sud-ovest, attraverso aspri territori montagnosi, avrebbe condotto sull’altopiano dello Yünnan. La strategia d’invasione, devastante nella sua semplicità, prevedeva un attacco verso la capitale Ta-li, sferrato lungo tre direttrici: al centro Qubilay, da ovest Uriyangkhadai e da est una compagine di principi associatisi lungo il cammino. Il grosso dello sforzo bellico fu sostenuto dalla compagine di Qubilay che, raggiunte a novembre le sponde del Chin-sha chiang, si ritrovò le truppe nemiche assiepate sugli argini sotto il comando di Kao T’ai-hsiang, il ministro detentore dell’effettivo potere in luogo del sovrano Tuan Hsing-chih, che risultava essere poco più che un uomo di paglia.
Per nulla scoraggiato da quel baluardo apparentemente formidabile, Qubilay ordinò al suo generale Bayan – con il quale era destinato a condividere ancora onori sul campo di battaglia – di guadare nottetempo il fiume con zattere improvvisate costruite con sacchi di pelle di pecora. Colto il nemico di sorpresa, Qubilay costrinse Kao T’ai-hsiang a riparare velocemente nella capitale dopo aver perso molti uomini. A quel punto, l’invasore poteva concentrare tutte le sue forze nell’assedio sferrato contro Ta-li, che fu conquistata senza spargimento di sangue. La leggenda narra che a salvare la città intervenne Yao Shu, il consigliere confuciano che, avendo accompagnato il suo signore gli avrebbe suggerito, in ottemperanza ai precetti della sua dottrina, di non compiere il massacro della popolazione; appare però più probabile che Qubilay, nell’occasione, abbia fatto tesoro dell’insegnamento di nonno Gengis, il quale spesso era ricorso alla tattica di terrorizzare i nemici per sottometterli, salvaguardando l’incolumità di coloro che si arrendevano spontaneamente.
L’unico che non riuscì a godere della clemenza del conquistatore fu proprio Kao T’ai-hsiang che fu decapitato presso la porta sud della città. A conferma della buona disposizione d’animo di Qubilay, l’assimilazione del regno di Ta-li avvenne in maniera “morbida”: la dinastia regnante fu mantenuta in piedi (d’altronde, se Tuan era stato un fantoccio prima poteva continuare a esserlo anche ora) e affiancata da rappresentanti mongoli, mentre alla popolazione furono elargiti addirittura sementi e bestiame per ingraziarsela.
Ciò fatto, Qubilay prese la via della Cina del Nord, non prima di aver affidato il prosieguo della campagna a Uriyangkhadai, con il compito di perfezionare la conquista assoggettando le terre a nord-ovest. Questi svolse brillantemente l’incarico, “pacificando” le regioni sino al Tibet: quindi, nel 1257 tornava di nuovo verso est attaccando il regno dell’Annam. Il caldo, la giungla e gli insetti lo costrinsero a desistere dall’impresa, con la quale comunque otteneva la promessa di tributi che gli annamiti furono più che disposti a offrire pur di togliersi dai piedi gli invasori. Fu così che, grazie soprattutto allo sforzo di Uriyangkhadai, la prima spedizione militare di Qubilay si risolse in modo trionfale. Aveva portato a termine quanto gli era stato chiesto da Möngke e, senza subire perdite, aveva esteso il dominio mongolo su una regione strategicamente importante, base di partenza per un’invasione della Cina meridionale e via commerciale verso la Birmania e l’India.
Qubilay poteva rivolgersi nuovamente all’amministrazione dei suoi territori, considerevolmente aumentati dopo la campagna. In questo periodo, si avvalse principalmente dei consigli di Lien Hsi-hsien, uno uiguro appena ventenne che, secondo la stereotipata terminologia delle cronache dinastiche cinesi, avrebbe svolto il compito di «schiacciare il violento e difendere il debole». Indubbiamente fu lui il fautore del buon governo espresso da Qubilay in questa fase, durante la quale furono ingaggiati amministratori preparati a sovrintendere l’agricoltura, i commerci e la riscossione delle tasse che contribuirono alla prosperità dei territori. Inoltre, fu sempre Lien a offrire protezione ai letterati-funzionari, garantendo così oltre a un’efficiente amministrazione, anche un impulso vitale alle scuole di formazione degli stessi. Sebbene appaia indubbio che Qubilay rimanesse colpito dal multiforme ingegno del suo consigliere, capace di influenzare sensibilmente i primi passi della sua vita politica, non di meno il futuro imperatore rivendicò e mantenne una certa autonomia di pensiero, attraverso la quale ribadì costantemente chi fosse il vero detentore del potere. Così ad esempio, sebbene Lien spingesse per una forte sinizzazione dell’apparato di governo, Qubilay preferì seguire la linea di una maggiore flessibilità, in cui i disparati elementi culturali presenti nei suoi domini si fondessero senza necessariamente subordinarsi alla matrice cinese.
Uno dei punti in cui i due conversero senza attriti fu la decisione presa nel 1256 di fondare una nuova capitale nei nuovi possedimenti, entro cioè i confini di un mondo tradizionalmente riconosciuto come sedentario. Consapevole del valore simbolico dell’impresa, Qubilay prevenne le probabili proteste dei tradizionalisti mongoli, i quali avrebbero potuto rinfacciargli la scelta di non aver fondato la città nelle steppe, e scelse il luogo del nuovo insediamento a nord del fiume Luan, lungo la frontiera che delimitava i pascoli mongoli dai campi agricoli cinesi. Il nuovo sito, chiamato inizialmente K’ai-p’ing ma ribattezzato a partire dal 1263 Shang-tu, ovvero Capitale Superiore, rifletteva la concezione sincretistica del sovrano: accanto a una nutrita riserva di caccia, concepita secondo l’uso mongolo con boschi, prati e corsi d’acqua, si stagliavano edifici di chiara influenza cinese, fra cui spiccava il palazzo adibito a dimora per sé e per la sua corte.
Gli sforzi di Qubilay non placarono il malcontento dei mongoli, ormai convinti che il loro signore virasse incontrovertibilmente verso gli usi e i costumi dei popoli che, seppur sottomessi, esprimevano una potente attrattivo in virtù della loro raffinatezza culturale. La voce giunse a Möngke, trovando orecchie attente in chi aveva già vissuto con fastidio il trionfo militare di Qubilay e adesso guardava con sospetto l’edificazione di una città capace di rivaleggiare con le sontuose dimori imperiali di Karakorum. Senza contare che, nell’ottica mongola, avrebbe costituito un pericoloso precedente tollerare l’identificazione di un sovrano con i propri sudditi cinesi – deriva alla quale Qubilay sembrava condannato – attraverso la quale si rischiava di perdere la purezza dell’identità delle proprie origini.
Di conseguenza, nel 1257 Möngke inviò presso la corte del fratello due funzionari fidati, ai quali ufficialmente affidò il compito di indagare in merito alla gestione del governo di Qubilay ma a cui segretamente affibbiò il compito di causare la caduta del congiunto. I due non fecero neppure in tempo a giungere che, riscontrato frettolosamente un numero impressionante di infrazioni, già avviavano le esecuzioni sommarie dei presunti colpevoli. Lo scopo era evidentemente quello di eliminare nel senso pieno del termine tutti i funzionari cinesi sulla cui adesione si poggiava il potere di Qubilay e, una volta tolti di mezzo, colpire direttamente Qubilay stesso.
La purga proseguì a ritmo vertiginoso senza che il poveretto, a cui era stata limitata l’espressione dei suoi poteri, come nel caso della riscossione delle imposte, riuscisse a contrapporre un freno. Fu a quel punto che, stando all’aneddotica cinese, sarebbe intervenuto il salvifico intervento dello spirito confuciano presente presso la sua corte. Sarebbe dunque stato il pio Yao Shu a consigliare Qubilay, già pronto a perorare la sua causa attraverso la via delle armi, di adottare un atteggiamento remissivo, attraverso il quale rassicurare Möngke circa le sue intenzioni e la sua fedeltà alla causa mongola. La via dell’umiltà avrebbe dunque portato al fatale incontro in cui Qubilay, recatosi supplice presso la residenza fraterna, avrebbe ottenuto il perdono di Möngke che, abbracciatolo senza indugi, avrebbe di colpo spazzato via i contrasti fino a quel momento dolorosamente presenti.
Al di là dell’agiografia confuciana, le cose andarono in modo leggermente più articolato. Sia Qubilay che Möngke dimostrarono per tutta la loro esistenza di essere animati da un lucido pragmatismo. Soprattutto il secondo, che pur di cingere la corona di khan non si era fatto scrupolo di eliminare cugini, zie e parenti vari, interpretando fedelmente l’usanza mongola e non solo quella, a essere sinceri. Sulla scorta di quanto fatto dal nonno Gengis, che in tenera età aveva assassinato il fratellastro pur di stabilire la supremazia in famiglia, Möngke non si sarebbe tirato indietro, se avesse giudicato opportuno uccidere Qubilay, anche al netto di qualsivoglia manifestazione di sudditanza e di fedeltà. Se ciò non accadde fu dovuto al fatto che Möngke, a partire dal gennaio del 1258, si trovò nella condizione di dover piuttosto ricorrere all’alleanza con Qubilay per fronteggiare due questioni che rischiavano di minare seriamente la sua posizione. La prima era relativa alla violenta disputa scoppiata tra buddhisti e taoisti, con relativo strascico di distruzione di templi, monasteri e furti di oggetti sacri, che oltre a destabilizzare il regno mongolo, getta una luce sulla presunta pacatezza troppo spesso attribuita a tali filosofie da adoranti estimatori occidentali.
L’altra faccenda riguardava la necessità di portare a termine la sempre sbandierata conquista del regno dei Sung, le cui incursioni a nord continuavano nonostante i tentativi di arginarle, alimentando la passione nazionalista dei cinesi fino a quel momento sottomessi. Crocevia di tali impegni risultavano essere i territori amministrati da Qubilay e l’adesione ottenuta da questi presso l’elemento cinese nel nord: senza di esso sarebbe stata arduo venire a capo della disputa che stava sgretolando il regno, senza contare l’impossibilità di sferrare un attacco a sud privandosi della base costituita da un territorio che, in buona sostanza, era stato assimilato proprio per svolgere tale funzione. Pertanto, in nome di questi comuni obiettivi fu inevitabile che i due fratelli si riconciliassero, dando vita al commovente incontro narrato nelle cronache.
Sancita la pace, Qubilay dovette dimostrare di essersela meritata. Così nel 1258 convocava nella sua capitale gli esponenti dei due schieramenti religiosi e, dopo aver partecipato attivamente alle loro dispute, dichiarò vincitori i buddhisti con un provvedimento che non ammetteva repliche: tutti i capi taoisti furono giustiziati, tutti i loro libri furono bruciati, tutte le scritte istoriate su colonne, steli, muri cancellate. Nonostante il duro colpo inferto, tuttavia, Qubilay si dimostrò magnanimo con la base taoista, evitando una persecuzione che sarebbe approdata a un bagno di sangue.
Risolta così la questione e ottenuto ulteriore prestigio, il nostro si apprestò a fronteggiare la seconda sfida proposta dal fratello Möngke, interpretando un ruolo che ai fini della conquista dei Sung risultò essere fondamentale. L’impresa che il khan si era prefissato era di quelle che facevano tremare i polsi. La Cina a sud dello Yangtze era un regno potente, caratterizzato da città che erano tra le più popolose del mondo di allora. Basti pensare che la capitale Lin-an, l’attuale Hangchow, contava un milione di abitanti, mentre Venezia, uno dei maggiori centri commerciali universalmente riconosciuti, arrivava a malapena a centomila anime.

Mappa dell'area in cui Qulibaly operò

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Le tecniche d’assedio sperimentate dai mongoli nella prima stagione di conquista sarebbero state messe a dura prova: i popoli della steppa avevano ancora molto da imparare sull’utilizzo di macchine ossidionali di qualsivoglia fattura. Inoltre, la loro arma privilegiata, la cavalleria, sarebbe stata pressoché inutile su un territorio contrassegnato da un andamento collinare contrappuntato da sdrucciolevoli risaie, senza contare le difficoltà che un clima torrido, gravido di potenziali malattie, avrebbe creato in chi era abituato al gelido vento delle steppe nordiche. Tuttavia, convinto e soprattutto costretto a completare l’opera intrapresa dai propri avi, Möngke perseverò nell’idea dell’invasione, che intendeva mettere in atto attraverso l’impiego di quattro eserciti da scagliare contemporaneamente.
L’idea, brillantemente sfruttata da Gengis nella conquista della Corasmia, era quella di impedire ai Sung di concentrarsi in difesa di un unico punto, costringendoli a distendersi lungo un’immensa porzione di territorio. Ordita la strategia, nel maggio del 1258 Möngke attraversò il fiume Giallo e radunò le sue forze a Liu-p’an shan; il loro numero appare a dir poco incerto: si passa infatti dalle 600.000 unità a un contingente di soli 9 tümen, circa 90.000 uomini. Considerato che quando riuscirà a conquistare Ch’eng-tu, una delle più importanti città dello Szechwan, il khan lascerà una guarnigione di soli 3000 uomini, è probabile che le fantasmagoriche stime delle sue forze vadano drammaticamente riviste al ribasso.
Più o meno contemporaneamente Qubilay si muoveva con un secondo esercito da K’ai-p’ing e, attraversato lo Yangze all’altezza di O-chou, sconfiggeva le forze Sung accorse a contrastarlo. Lì si incontrava con il terzo contingente, guidato da Uryiangkhadai che, partito dallo Yünnan, avanzava verso nord-est, e con un quarto esercito, affidato al nipote di uno dei fratelli di Gengis e avanzato da Liu-p’an verso Hsiang-yang.
La strategia di Möngke prevedeva dunque un attacco massiccio contro l’area centrale e sud-occidentale del regno sung, conquistate le quali i mongoli speravano di riuscire a esercitare una pressione sufficiente a piegare la resistenza del nemico, concentrata nella zona orientale, inducendolo a una resa che non avrebbe comportato ingenti perdite. Ma ciò che sulla carta appariva liscio, nella realtà fu ben altra cosa. Dopo i successi iniziali, infatti, le armate mongole si impantanarono letteralmente nel fango prodotto dai violenti temporali tipici dell’area coinvolta nelle manovre belliche. Le residue forze si infransero contro le mura delle città in cui le difese, tutt’altro che fiaccate, messe in piedi dal generale sung noto come Wang Chien, non mollarono di un centimetro. Insomma, dopo un anno dall’inizio dell’invasione i mongoli languivano in una terra straniera che li stava sopraffacendo.
Il malumore incalzava eppure Möngke, testardo, non aveva alcuna intenzione di mollare. La sua caparbietà fu stroncata l’11 agosto del 1259 da una freccia, che lo colpì nel corso dell’assedio di Ho-chou, anche se secondo altre fonti fu vittima di un’epidemia, probabilmente dissenteria o colera. La morte del khan non solo segnò la fine delle operazioni nella Cina del Sud, ma decretò una battuta d’arresto nella marcia trionfale che le armate mongole stavano effettuando in Medio Oriente. Hülegü, che aveva dilatato i confini mongoli sino in Siria, si precipitò in patria per partecipare al khuriltay che avrebbe decretato l’elezione del nuovo khan, lasciando un contingente simbolico al nestoriano Ked Bukha il quale, il 3 settembre del 1260, nella piana di Ayn Jalut in Palestina, subirà a opera dei mamelucchi egiziani una sconfitta campale che affosserà il mito dell’imbattibilità mongola.
L’unico che non abbandonò le armi per correre al gran consiglio fu proprio Qubilay che protrasse caparbiamente la lotta contro i Sung per altri due mesi. Forse egli dovette intuire che riuscire lì dove avevano fallito Ögödei e Möngke avrebbe costituito un ottimo viatico per il trono, e fu per questo che preferì combattere sul campo di battaglia disertando uno scontro parimenti violento sugli scranni del kuriltay. Stando alla testimonianza di Rashid al-Din, informato della morte di Möngke egli avrebbe così sprezzantemente risposto a chi lo invitava a ritornare in patria: «Siamo venuti sin qui con un esercito, come formiche o locuste; come possiamo tornare a casa senza aver condotto a compimento il nostro dovere solo a causa di voci?».
Per i Sung sembrava giunta l’ora della fine, quando dalla Mongolia giunsero pessime notizie che costrinsero Qubilay a precipitarsi al nord dello Yangtze. Suo fratello Arigh Böke infatti, lavorando sottotraccia si era guadagnato l’appoggio dei notabili della nobiltà mongola, risultando ormai a un passo dall’elezione. Qubilay allora, rientrato in tutta fretta a K’ai-p’ing tentò di giocare d’anticipo e organizzando un tempestivo kuriltay, il 5 maggio 1260 si fece riconoscere nuovo gran khan. Per tutta risposta, appena un mese dopo anche Arigh Böke si fece proclamare gran khan: a quel punto, sarebbe spettato alle armi scrivere l’ultimo atto di quella tormentata successione. La guerra civile che Qubilay si apprestava a sostenere non era affatto semplice. Il suo avversario poteva contare sull’appoggio di Berke, il signore dell’Orda d’Oro, a cui si sommavano l’alleanza con Alghu, khan del Chagathay, e diversi principi appartenenti al ramo del defunto Möngke. Qubilay, dal canto suo, contava sul contributo di Hülegü, l’il-khan di Persia, che però al momento aveva dei problemi. Incassata la sconfitta di Ayn Jalut infatti, questi fu invischiato in una guerra contro Berke che, approfittando della disfatta, avanzò deciso contro Hülegü al quale intendeva sottrarre definitivamente l’Azerbaijan, a lungo pomo della discordia tra i due.
Qubilay, di fatto costretto a fronteggiare da solo la coalizione messa in piedi da Arigh Böke, si affrettò ad adottare una politica sempre più a favore della popolazione cinese presente nei suoi domini, per evitare pericolose sollevazioni sul fronte interno. Dimostrando dunque doti invidiabili di sagacia politica, egli si assicurò inoltre di alleggerire la pressione fiscale che gravava sulla popolazione, assicurandosi che anche i più poveri fossero sfamati e blandendo tutti con la sbandierata intenzione di governare secondo il costume dei loro avi. In pratica, Qubilay diede fiato alle trombe della propaganda presentando se stesso come il continuatore della tradizione degli imperatori cinesi alla ricerca della prosperità e dell’unione del regno di Mezzo, in contrapposizione ad Arigh Böke che, invece, si affannò a presentare come il conquistatore, l’usurpatore mongolo che minacciava di schiacciare sotto il suo tallone il popolo cinese e la sua cultura millenaria.
Nonostante tali sforzi non tutti i cinesi abboccarono: i Sung, come prevedibile, approfittarono della guerra civile per cacciare le guarnigioni mongole e riappropriarsi dei territori loro sottratti nel corso della fugace campagna precedente. Ma neppure al nord, dove Qubilay era convinto di aver fatto breccia nei cuori e nelle menti della compagine cinese, le cose andarono lisce. Appena un anno dopo il suo insediamento, il gran khan dovette infatti fronteggiare una violenta ribellione deflagrata nell’area nord-occidentale dei suoi possedimenti, ovvero la provincia dello Shantung affidata al ministro cinese Li t’an. Costui, dopo che nel 1258 Möngke gli aveva affidato il compito di prendere la città di I-tu e da lì marciare a sud contro i Sung, aveva progressivamente accarezzato l’idea di muoversi come un cane sciolto e, sfruttando l’importante nodo strategico appena conquistato, aveva deciso di espandersi verso oriente a consolidare territori che ormai considerava propri. La spinta eversiva, all’inizio appena abbozzata, si era concretizzata dopo la morte di Möngke e la successiva elezione di Qubilay, e ora si presentava in tutta la sua drammatica pericolosità.
Per quanto impegnato contro Arigh Böke, Qubilay non poté sottovalutare la minaccia, per fronteggiare la quale fu costretto a stornare parte delle sue truppe e inviarle contro il ribelle; questi, nel febbraio del 1262 aveva ormai dichiarato le sue intenzioni, saccheggiando e massacrando, secondo la cronaca dello Yüan shih, magazzini e guarnigioni imperiali. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile le truppe lealiste si scontrarono con i rivoltosi all’altezza della città di Chi-nan. Li t’an ebbe la peggio e dopo aver perso circa 4000 uomini fu costretto a riparare tra le mura cittadine, dove resistette fino ad agosto. Sorpreso sulle rive del vicino lago di Ta-ming dove era fuggito, fu catturato e giustiziato dopo essere stato chiuso in un sacco e calpestato dai cavalli, secondo la moda mongola che evitava lo spargimento di sangue dei capi nemici. Qubilay risolveva così il grattacapo traendo una lezione che rimarrà impressa nella sua mente per tutto il resto della propria esistenza, condizionando le sue future scelte politiche: mai più fidarsi di un amministratore cinese.
Liquidata la questione, il gran khan poteva finalmente dedicare tutte le sue energie contro il sedicente omologo. La sua strategia vincente fu quella di impedire ad Arigh Böke, di stanza nella capitale mongola Karakorum e dunque costretto a importare la maggior parte degli approvvigionamenti per le sue truppe, di usufruire delle abbondanti risorse disponibili presso le popolazioni sedentarie. Tagliandogli le zone di rifornimento nella regione del Kansu e nell’area di Yen, Qubilay infliggeva ad Arigh una sonora batosta nel 1260 dalle parti del fiume Yus, lasciandogli così solo la base dell’alto Yenisei: ben poca cosa, se comparato alle risorse della Cina settentrionale e dell’Asia centrale alle quali Qubilay aveva invece libero accesso.
Limitato così il nemico, Qubilay si preoccupò di rinforzare le zone della frontiera nord-occidentale e di sottrarre al rivale le città di Liang-chou e khan-chou sue alleate; lo scopo era quello di chiudere Arigh in una morsa che l’avrebbe stritolato. Come prevedibile, questi reagì tentando di aprirsi un corridoio che gli consentisse l’accesso alle vie carovaniere da cui raggiungere i depositi dell’Asia centrale, ma anche quella mossa fu neutralizzata. L’esercito da lui inviato, al comando del generale Alandar, fu infatti intercettato e distrutto dalle forze fedeli a Qubilay verso la fine del 1260 nei pressi di Hsi-liang, un importante centro della Cina nord-occidentale.
Quindi toccò al nostro prendere l’iniziativa e sferrare a sua volta un attacco che, nel novembre del 1261, si concretizzò in due scontri combattuti a distanza di pochi giorni: il primo presso Shimultai, non lontano dal confine cinese, il secondo lungo il pendio dei monti Khingan, nella Mongolia orientale. Entrambi si risolsero a favore di Qubilay che, ottenendo il controllo completo della Mongolia, aumentava ulteriormente la pressione sulla base di Arigh nello Yenisei.
A salvare quest’ultimo, intervenne come visto la ribellione di Li t’an, che distrasse Qubilay quel tanto che bastò per allentare la presa sul rivale. Arigh Böke ne approfittò per uscire allo scoperto e aprirsi un varco oltre il fiume Ili, nel Sinkiang del Nord; oltrepassato il corso d’acqua, riusciva a occupare le oasi occidentali di Khotan e Kashgar, grazie alle quali fronteggiò l’emergenza dei vettovagliamenti. Una volta allestito il nuovo quartier generale ad Almalikh, egli comprese però di essere caduto dalla padella alla brace. Si ritrovava nella steppa, lontano dalle fonti di approvvigionamento indispensabili per il prosieguo di una guerra di logoramento. In una situazione così precaria il suo animo si inasprì, adottando con i nemici catturati in battaglia una durezza eccessiva che lo portò ad ammazzare e torturare. Lo scoppio di tanta crudeltà, unito alla carestia che afflisse il suo esercito nel difficile inverno del 1263, gli alienò definitivamente simpatie e alleanze, inducendo finalmente Arigh a chinare il capo. Raggiunta supplice K’ai-p’ing, si prostrò ai piedi di Qubilay, rinnovando la scena del fraterno abbraccio con cui i due si riconciliavano come se nulla fosse successo.
Sebbene tanta clemenza nobilitasse l’animo di Qubilay, non convinse affatto la stragrande maggioranza dei suoi sostenitori, persuasi che il ribelle e i suoi seguaci andassero adeguatamente puniti. Qubilay fu dunque costretto a impedire ad Arigh l’accesso a corte per un anno intero e a indire un kuriltay nel quale si sarebbe decisa la sorte del fratello, ma soprattutto, in cui si sarebbe ribadita la sua nomina a khan di tutti i mongoli. I tre più grandi dignitari sui quali pesava l’onere delle risoluzioni non si presentarono: i khan di Persia e Russia erano infatti in guerra tra di loro e nessuno giudicò opportuno lasciare le proprie terre in un momento tanto delicato; quanto al khan del Chagathay, addusse scuse abborracciate che nascondevano il fastidio di partecipare a un’assemblea che considerava come minimo inopportuna. A ogni modo, tutti e tre passarono a miglior vita tra il 1265 e il 1266, lasciando di fatto Qubilay padrone di gestire la situazione come meglio credeva. A quel punto intervennero gli dèi a togliergli le castagne dal fuoco, avocando al loro cospetto l’ingombrante Arigh Böke, che abbandonava questa terra in seguito a una tempestiva malattia. Forse troppo, considerato che più di una voce circolò insinuando che più del fato poté il veleno, opportunamente inoculato da Qubilay.
In ogni caso, il quel fatidico anno 1266, Qubilay finalmente si ergeva come unico grande khan dei mongoli. È di quel periodo il ritratto cinese che lo ha immortalato come un uomo robusto e deciso. Adornato da un semplice panno, privo di fronzoli se non un copricapo bianco e nero, Qubilay appariva con barba e baffi curati, a incorniciare un viso che emanava vivacità e volitività. Una descrizione lontanissima da quella, invece, catturata in un altro dipinto degli anni ’80, in cui il sovrano comparirà disfatto da un’obesità quasi grottesca, figlia della sua passione smodata per il cibo e soprattutto per l’alcol, alla quale indulgerà in maniera patologica.
Una volta rimasto arbitro incontrastato del potere mongolo, Qubilay si preoccupò di cementificare l’architettura del suo governo. Fu in questa fase che l’apporto della moglie Chabi appare determinante. Se Chabi fu in grado di fornire al suo sposo “dritte” di ordine pratico, la pletora di consiglieri cinesi tentò in ogni modo di fornire il resto dei suggerimenti sui quali Qubilay avrebbe dovuto basare il proprio regno. Questi si condensarono in un prontuario che passerà alla storia come i sedici punti di Hao Ching, dal nome del suo compilatore; in base a essi, sintetizzando, si stabiliva che fosse indispensabile un’amministrazione centralizzata, in cui consiglieri dotati di poteri eccezionali coadiuvassero il sovrano nell’esercizio di un potere che, data la vastità del territorio sottoposto, non avrebbe potuto espletare da solo. Qubilay, sebbene in sostanza condividesse tale assunto, non aveva assolutamente intenzione di concedere all’elemento cinese quell’autorità che, come aveva già sperimentato in passato, rischiava di ritorcerglisi contro. In più, pur riconoscendo validità a metodi e caratteristiche cinesi, non perdeva di vista come queste dovessero in pratica riflettere e proteggere gli interessi mongoli. Detto in altri termini, egli cercò il modo di limitare il potere dei consiglieri cinesi senza doversi privare dell’apparato amministrativo tipico delle dinastie cinesi. Così stabilì che il governo centrale dovesse risiedere nella Cina del Nord, cuore del regno, ma che un importante distaccamento amministrativo figurasse anche a Karakorum, a testimoniare la sua vicinanza al territorio mongolo.
Quindi divise la popolazione prima in tre poi in quattro gruppi, assegnando ai mongoli i posti di maggior prestigio. Seguivano i cosiddetti Se-mu jen, “i vari stranieri” comprendenti soprattutto individui originari dell’Asia centrale e occidentale che, in virtù dei loro servigi resi ai conquistatori, godevano di uno status più importante rispetto alle popolazioni indigene. Terzi venivano i cinesi del Nord e gli jurchen della precedente dinastia Chin, definiti Han-jen, i quali al pari del quarto gruppo, i cinesi del Sud noti come Nan-jen, furono esclusi dalle più importanti cariche e relegati ai gradini più bassi della compagine sociale; i consiglieri cinesi che continuarono a esercitare i loro uffici costituirono a tutti gli effetti delle eccezioni mai formalmente riconosciute.
La concessione di ampi poteri all’elemento mongolo era funzionale a bilanciare la discrepanza numerica tra i conquistatori e i sudditi caduti sotto il loro comando, nettamente a vantaggio di questi ultimi. Nonostante ciò, Qubilay, che puntava a proporsi come un sovrano assoluto, un vero e proprio imperatore al di sopra di tutto e tutti, tentò di limitare l’autorità dei suoi sottoposti creando uffici ad hoc: un compito che gli riuscì solo in parte. Sin dall’inizio del suo regno, infatti, gran parte dei territori che costituivano la maggioranza delle conquiste mongole, ovvero l’Asia centrale, la Persia e la Russia avevano iniziato ad affermare la propria indipendenza. Sebbene riconoscessero il gran khan, questi “Stati” tendevano a considerarsi autonomi, rendendo di fatto l’impero mongolo un gigante diviso in distinte unità politiche che, simbolicamente, ritrovava la propria unità solamente nel corso dei kuriltay, all’interno dei quali venivano discussi principalmente i problemi di politica militare.
Al netto di tale evidenza, Qubilay si ostinò a percepire se stesso come un imperatore cinese che, fregiato dei simboli mongoli, estendeva il suo dominio su tutti i territori conquistati, nonostante la sua autorità fosse in effetti circoscritta alle “sole” Cina e Mongolia: tuttavia, fu sufficientemente realista da adattarsi alla situazione creando un governo adatto ai possedimenti mongoli in Asia orientale.
La prima preoccupazione di Qubilay fu creare un’amministrazione agile ed efficiente. A tale scopo istituì una Segreteria cui delegò l’intera giurisdizione degli affari civili. A questa affiancò nel 1263 il Consiglio Privato, cui spettò il compito di gestire le questioni militari e per ultimo, cinque anni dopo, promosse il Censorato, un ministero preposto al controllo di tutti i funzionari sparsi nelle terre dell’impero. Ciò fatto, dopo aver organizzato le sue terre in un’organica suddivisione in province (per la Cina se ne contarono dieci), avviò un robusto programma economico e sociale attraverso cui concretizzare il suo progetto di governo. Uno dei suoi primi obiettivi fu il potenziamento dell’agricoltura, uscita malconcia dalla precedente stagione di guerra e in affanno a causa di una sventurata congiuntura economica. Intuendo come essa costituisse la base della prosperità del proprio regno, adottò una serie di incentivi che, a partire dagli anni ’70 del XIII secolo, portarono alla formazione dello She, un’organizzazione rurale sostenuta dallo Stato, la cui unità era composta da cinquanta famiglie riunite sotto la direzione di un capo villaggio. Compito dello She era quello di incrementare la produzione agricola e di favorire la bonifica del territorio, che si realizzò attraverso il rimboschimento, la messa a coltura di nuovi terreni nelle zone povere, opere di irrigazione e controllo delle inondazioni, incremento della produzione della seta e creazione di vivai per la piscicoltura.
Qubilay passerà alla storia con la fama di mecenate illuminato, patrocinatore del teatro (che sotto il suo regno visse una straordinaria stagione) e della letteratura, di cui promosse la stampa istituendo, a partire dal 1269, un ufficio apposito. Va specificato che le sue propensioni culturali furono piuttosto determinate da oculate considerazioni politiche, maturate dall’idea che, dovendo mantenere un equilibrio tra le compagini etniche sotto il suo dominio, le varie espressioni artistiche, promosse o spesso semplicemente tollerate, contribuissero al rafforzamento del consenso che così faticosamente andava cercando.
Perseguendo la stessa logica egli figurò tra i primi sovrani mongoli a rendersi conto della necessità di una nuova scrittura ufficiale come mezzo di unificazione dei suoi domini e di affermazione del suo governo universale. Desiderò dunque creare uno strumento che sopravanzasse le due scritture esistenti, il cinese e lo uiguro, quest’ultimo adottato dai khan che lo precedettero. Così, venne elaborata quella che verrà conosciuta come Scrittura quadrata o ’Paghs-pa, dal nome del volenteroso lama tibetano che la creò, con l’ausilio di un nutrito gruppo di monaci e letterati. Descritta come un alfabeto tibetano adatto ai bisogni della fonetica mongola, la nuova scrittura fu a tutti gli effetti una derivazione tibetana che però, al pari dello uiguro, veniva vergata verticalmente. Nonostante Qubilay nutrisse smodate speranze sull’utilizzo di questo codice, promosso da un editto del 1269, esse si infransero contro la naturale ritrosia espressa dalla popolazione nei confronti di un prodotto creato a tavolino che, per quanto efficace e preciso, risultava artificiale.
Più o meno sorte analoga avrà la creazione di una moneta unica, un’iniziativa che aveva lo scopo di uniformare i mercati e facilitare gli scambi all’interno dei suoi vasti domini. Sebbene si registrasse la novità assoluta dell’emissione di valuta cartacea, determinata dalla cronica mancanza di rame, eccessivamente spremuto dalle coniazioni precedenti, e nonostante vi fosse una diffusione pressoché totale in ogni angolo dell’impero, l’esperimento si rivelerà fallimentare: finché il controllo esercitato da Qubilay sull’inflazione fu ferreo le cose funzionarono ma quando, a partire dal 1276, le ingenti spese sostenute per le continue guerre e per le immani opere architettoniche portarono a un’erogazione spropositata di moneta, questa si svalutò mandando tutto il progetto all’aria.
Da quanto sin qui tracciato appare evidente come, all’inizio del suo regno, Qubilay sia apparso come un sovrano assetato di grandeur, altresì dotato della forza e dell’acume necessari per assecondare le sue pulsioni. Fu proprio per perseguire tale natura che egli non poté tralasciare uno dei tratti distintivi delle sue origini mongole, che lo costringevano a dilatare ad libitum il concetto della guerra. Senza di essa e senza le conquiste conseguenti, il suo potere avrebbe avuto vita breve tra quelle popolazioni che facevano del sangue e della razzia la loro stessa natura di vita. Allo stesso modo, un’aggressiva politica estera rispondeva ai dettami della tradizione cinese, abituata a vedere nel sovrano colui che era capace di “convincere” i popoli stranieri ad accettare i benefici della civiltà cinese. Così, sia per assecondare i figli delle steppe che i sudditi del Celeste Impero, Qubilay si ritrovò presto a indossare i panni del conquistatore.
Il primo obiettivo non poteva che essere il regno dei Sung meridionali, con i quali Qubilay aveva un conto aperto ereditato dai suoi predecessori. Al di là del mero prestigio che una vittoria avrebbe prodotto, la conquista della Cina meridionale rispondeva a una serie di esigenze strettamente militari ed economiche. Attraverso di essa, infatti, Qubilay avrebbe finalmente eliminato il pericolo creato da una dinastia che rivendicava costantemente diritti sui territori da poco conquistati. Facendo ciò, avrebbe potuto dirottare le sue forze a controllo della frontiera nord-occidentale, oggetto di pressioni da parte della Corea che, per quanto alleata, mostrava segni di insofferenza, e delle incursioni provenienti dall’Asia centrale, animate dal nipote di Ögödai, Khaidu, che una volta preso il potere sfidava così l’autorità di Qubilay invadendone sporadicamente le terre.
Inoltre, i territori a sud dello Yangtze erano più fertili di quelli del Nord, senza contare che i traffici intessuti dai Sung con il Sud-Est asiatico, l’India e il lontano Medio Oriente animavano un mercato lucroso su cui il sovrano mongolo doveva e voleva mettere le mani. A fronte di tutti questi vantaggi, rimaneva la valutazione delle difficoltà sino a quel momento sperimentate ogni volta che i mongoli si erano cimentati in un’impresa militare a danno dei popoli della Cina meridionale.
Al di là dell’incapacità riscontrata nel contrastare il clima torrido di quelle latitudini, Qubilay comprese che il vulnus che fino ad allora aveva frustrato le iniziative mongole risiedeva nella totale ignoranza della guerra marinara. Il regno dei Sung, infatti, concentrava una considerevole parte della sua potenza in ricche città costiere la cui conquista presupponeva un attacco navale. Sebbene relativamente debole sulla terraferma, la società sung dimostrava al contrario una certa baldanza sui mari, dove una potente flotta, nonostante il decadimento sofferto a causa di una diffusa corruzione, assicurava non solo la prosperità dei traffici ma un’efficace risorsa militare. Per fronteggiarla, Qubilay dovette compiere il miracolo di trasformare un esercito di eccellenti cavalieri in un’altrettanta efficiente ciurma di marinai. Così, i primi anni ’60 del XIII secolo videro i mongoli e i loro alleati cinesi, coreani e jurchen impegnati a costruire scafi, assoldare equipaggi e istruirsi all’arte della guerra navale con una velocità e un’alacrità che ebbero dell’incredibile.
Nel frattempo, schermaglie tra i due schieramenti susseguitesi quasi senza soluzione di continuità tra il 1260 e il 1262 costituirono il prologo alla definitiva deflagrazione del conflitto. La prima vera grande battaglia si combatté agli inizi del 1265 nei pressi di Tiao-yü shan, nello Szechwan: l’esercito di Qubilay non solo ebbe la meglio ma riuscì a sottrarre al nemico ben 140 navi, a riprova di come il sovrano mongolo ormai ritenesse gli scafi, costruiti o catturati che fossero, elemento indispensabile per il successo della campagna.
In effetti, lo scontro di Hsiang-yang del 1268 confermò la bontà di tale convinzione. La città era situata lungo il confine settentrionale dell’odierno Hupey, sulle rive opposte del fiume Han che poco più a sud confluisce con lo Yangtze. La roccaforte, protetta da solide mura e da un profondo fossato, era posta a guardia di una posizione strategica: conquistarla avrebbe significato accedere al bacino del medio Yangtze e costituire una formidabile base di attacco per le regioni a sud. Per averne ragione, i mongoli dovettero sfruttare le nuove competenze assunte in materia navale e fare sfoggio dell’abilità acquisita nelle tecniche ossidionali. All’inizio, infatti, Qubilay tentò di prendere la città per fame, ma si rese conto ben presto che ciò sarebbe stato impossibile senza effettuare il blocco degli aiuti che i difensori ricevevano via mare attraverso il fiume Han.
Nonostante ciò, ci vollero ben cinque anni per aver ragione della roccaforte, durante i quali scontri navali e assedi alle mura si alternarono senza posa. I mongoli e i loro alleati dovettero preoccuparsi di conquistare anche i forti d’appoggio alla città, come Fan-ch’eng, situata poco distante, e solo quando riuscirono a isolare Hsiang-yang dal resto del territorio sung poterono scatenare l’offensiva vincente. A quel punto fu indispensabile la perizia degli ingegneri musulmani per piegare la resistenza della valorosa guarnigione: essi collocarono nella parte sud-orientale della città una macchina capace di inviare proietti talmente pesanti da frantumare qualsiasi casa riuscissero a colpire. Solo a cospetto di quel prodigio che, azionato, produceva un rumore capace di scuotere cielo e terra, nel marzo del 1272 finalmente Hsiang-yang capitolava. Qubilay poteva così inaugurare con un successo di una certa entità l’avvento della nuova dinastia che aveva formalmente istituito a partire dall’anno precedente, assumendo il titolo di Yüan, letteralmente “principio primo” o “origine”.
Al cospetto della perdita di una delle loro maggiori piazzeforti difensive, la corte sung cominciò a tremare, addossando la responsabilità dalla disfatta a Chia Ssu-tao, il suo maggior stratega e politico. Per poter riguadagnare il prestigio perduto, quest’ultimo fu costretto a porsi direttamente al comando dell’esercito inviato a fronteggiare i mongoli, che ormai viaggiavano spediti alla volta della capitale Hangchow. A capo della forza di penetrazione Qubilay aveva posto il suo vecchio compagno d’armi Bayan, il comandante di origine turca che fu probabilmente il miglior soldato della sua generazione. Questi, tra la fine del 1274 e l’inizio del 1275 avanzò adottando la tattica mongola rivelatasi efficace per decenni: ogniqualvolta si presentava al cospetto di una città, pretendeva atto di sottomissione, negato il quale, avrebbe dato mano libera agli ordigni creati a bella posta dai suoi ingegneri musulmani, in special modo gli infernali lanciafiamme e i mangani di spaventosa potenza. Di fronte a questo dispiegamento, ben pochi dimostravano volontà di resistenza, sicché i mongoli avanzavano senza temere resistenze. L’unica furibonda battaglia che dovettero sostenere fu quella del gennaio del 1275 presso Han-k’ou, nel corso della quale, durante l’attraversamento dello Yangtze «furono innumerevoli coloro che morirono decapitati o annegati» stando a quanto narrato nelle fonti. Ancora vittoriosi, i mongoli riuscirono a ricacciare indietro i Sung sinché a marzo dello stesso anno, finalmente Bayan incontrava il suo avversario Chia.
Lo scontro combattuto presso Ting-chia chou dovette essere spettacolare, se è vero che le forze di Chia ammontavano a 130.000 uomini. Pur non conoscendo l’entità dell’esercito di Bayan sappiamo che la differenza la fecero le catapulte, con le quali il generale turco martellò il nemico sino a costringerlo alla ritirata. Dopo la disfatta, Chia fu costretto all’esilio e ammazzato durante il viaggio che l’avrebbe condotto a Fukien; Bayan, ormai col campo libero, avanzava verso Yang-chou, avendo cura di non saccheggiare le terre appena conquistate, per provocare così ulteriori defezioni a vantaggio dei mongoli, come caldamente raccomandatogli da Qubilay.
Affidato ad alcuni subalterni l’assedio della città, Bayan puntò su Hangchow, suo obiettivo finale. Nella capitale intanto andava in scena il crepuscolo della dinastia regnante. Morto l’anno prima il legittimo imperatore Tu-tsung, il potere era formalmente retto dalla madre di questi Hsieh Huang-hou, in attesa che il nipote Hsien ancora fanciullo raggiungesse la maggiore età. L’imperatrice vedova, come era altrimenti conosciuta, dovette assistere impotente al disfacimento della corte, minata da un’inarrestabile emorragia di defezioni. E di fronte alla venuta di Bayan ella non seppe opporre nulla di meglio che un’ambasceria, con la quale il 23 dicembre 1275 offriva all’invasore una formale tributo.
Il comandante turco, che si trovava a due passi dall’impresa, oppose un secco rifiuto, al che la donna rilanciò offrendo il pagamento annuo di 250.000 tael d’argento e altrettanti di seta, qualcosa pari a 10 tonnellate di entrambi i beni. Anche stavolta Bayan rimandò l’offerta al mittente, così la reggente dovette arrendersi e dichiarare la totale sottomissione a Qubilay. Malgrado la presa di Hangchow, la conquista del regno dei Sung era ancora lungi dall’essere completa. Appresa la notizia della caduta della capitale, frange di lealisti erano infatti convogliate a Fu-chou, nel Sud, dove il 14 giugno del 1276 assistevano all’incoronazione di Shih, fratellastro di Hsien ormai caduto prigioniero. Proprio quando sarebbe stato necessario un sovrano dinamico ed energico, veniva al contrario eletto un altro bambino di sette anni, alla corte del quale i dignitari residui si azzuffavano contendendosi brandelli di potere.
La mancanza di coesione indebolì ancor più la già precaria resistenza dei Sung, incoraggiando le forze mongole ad avanzare quanto più rapidamente verso sud. Congedato Bayan, cui era stato concesso il ritorno a Shang-tu e il conseguente trionfo, stavolta il compito di avanzare fu affidato all’uiguro Arigh Khaya che, al comando di 30.000 uomini, cominciò a muoversi verso l’odierna provincia del Kwangsi; contemporaneamente, un certo Sodu si spingeva a occidente battendo le coste meridionali della Cina, alla caccia degli ultimi esponenti della famiglia reale. Dopo aver conquistato il porto di Ch’u-chou verso la fine del 1275, questi puntava verso Fu-chou, deciso a spazzare una volta per tutte la corte dell’imperatore bambino Shih. I nobili stretti al fianco del sovrano-bambino rifiutarono sdegnosamente di arrendersi preferendo ritirarsi ancora più a sud e approdando presso le coste di Ch’üan-chou, un porto all’epoca animato da un fervido traffico commerciale. Qui furono accolti da P’u Shou-keng, un funzionario di origini arabe che, nominato a suo tempo Sovrintendente del Commercio marittimo, governava la città come un vero e proprio monarca.
I lealisti sung compresero presto che il loro anfitrione, dietro la facciata di cortesia e accoglienza, stava segretamente tramando con Qubilay promettendogli la consegna del piccolo Shih, e prima che il piano andasse in porto agli inizi del 1277 abbandonarono la città. Tallonati sempre dall’esercito mongolo di Sodu, che li deliziava a suon di mangani e catapulte ogni volta che poteva, quei poveretti vagarono senza meta rimbalzando tra Ch’ao-chou, Hui-chou e Kuang-chou. Il 6 gennaio del 1278, mentre ancora una volta tentavano di fuggire, i profughi incapparono in una violenta tempesta in cui la nave dell’imperatore naufragò: sebbene il bimbo sfuggisse al disastro, le fatiche, i disagi, il clima e una malattia che da tempo lo minava ne ebbero ragione, decretando la sua dipartita l’8 maggio dello stesso anno, pochi giorni prima che compisse suo decimo compleanno. Nonostante il colpo durissimo i Sung resistettero ancora e, animati dallo spirito battagliero di Chang Shih-chieh, il dignitario che insieme al collega Lu Shiu-fu ormai da tempo ne guidava le sorti, incoronarono caparbiamente Ping, fratellastro del defunto Shih, illudendosi così di poter mantenere viva una dinastia in stato comatoso. La loro fuga si trascinò ancora lungo le sponde dell’isola di Nao-chou e infine su quelle di Yai-shan, dove fatalmente furono raggiunti dai mongoli nei primi giorni del 1279. Il 19 marzo Chang Shih-chieh riuscì a forzare il blocco, anche se solo sedici delle centinaia di scafi con i quali aveva iniziato la fuga riuscirono a prendere il largo. Tra quelle colpite dai mongoli figurava il vascello che ospitava il nuovo imperatore; di fronte all’imminente catastrofe, si narra che Liu Shu-fu prese tra le braccia il piccolo Ping preferendo la morte tra i flutti a un’ignominiosa cattività.
Così finiva la dinastia Sung, sancendo definitivamente la conquista della Cina da parte di Qubilay. Compiuta l’opera, il sovrano mongolo dovette cimentarsi nella parte più ardua dell’impresa, ovvero guadagnarsi la fedeltà e l’obbedienza dei popoli che sino a poco prima gravitavano sotto l’egida della dinastia rivale. A dispetto delle difficoltà sottolineate in precedenza e nonostante il dominio che egli inaugurerò fosse destinato a durare appena un secolo, bisogna ammettere che le politiche che adottò furono sorprendentemente efficaci, al punto da instillare nei contemporanei una notevole fama, che gli riconosceva il successo nel governo di una terra vastissima e tanto complessa.
Sebbene la conquista della Cina fosse affare non da poco, Qubilay nel frattempo aveva trovato il tempo e le energie per dirigere verso altri lidi la sua inarrestabile fame di vittorie. A farne le spese la Corea, un’altra regione che, pur accarezzata dai suoi predecessori, non era mai stata pacificata completamente. Sin dall’inizio del suo regno, i rapporti intessuti con il sovrano coreano, salito al potere nel 1259 dopo aver assunto il nome di Wonjong, erano idilliaci. Costui infatti doveva alle armate mongole la sua ascesa al trono, possibile solo dopo aver sgominato la famiglia Ch’oe che, al pari dei Pipinidi di Francia, teneva sotto scacco il sovrano coreano.
Il monarca, una volta ottenuto finalmente l’effettivo potere, ripagava Qubilay con un vassallaggio fedele che, nel corso di tutti gli anni sessanta del secolo, si manifestò attraverso cospicui tributi, ripagati da una generosità che spinse addirittura il gran khan a soccorrere i vicini, inviando grano e carne per permettergli di superare incidentali periodi di magra. Quando però, nel 1269, un comandante di nome Im Yon tentò di replicare quanto fatto dal clan Ch’oe, controllare cioè la monarchia attraverso una cricca militare, Qubilay ritenne più che naturale intervenire. All’inizio dell’anno seguente, l’esercito mongolo inviato a sedare la ribellione sotto il comando del figlio di Wonjong, opportunamente tenuto in ostaggio presso la corte di Qubilay, ebbe ragione degli insorti e reinsediò il deposto sovrano sul trono. Alcune sacche di resistenza perdurarono fino al 1273, quando furono definitivamente annichilite con una battaglia combattuta sull’isola di Cheju, al largo della costa meridionale del continente. Nel frattempo, Qubilay coglieva l’occasione per assottigliare ancora di più il potere residuo del sovrano coreano e, approfittando dell’aiuto concessogli, lo riduceva a poco più che un esponente nominale della propria autorità sulla regione. Sua figlia Hutulu fu promessa in sposa al figlio di Wonjong, facendo così in modo che l’eventuale successore al trono fosse dunque il nipote di Qubilay.
Ridotta così la Corea a un satellite dei propri domini, Qubilay pensò bene di approfittare delle opportunità strategiche offerte dalla regione. Il suo sguardo ormai andava oltre, fissandosi a lambire le coste misteriose di una terra che da almeno quattro secoli viveva in uno stato di orgoglioso isolamento: il Giappone, che a partire dal IX secolo aveva troncato ogni rapporto commerciale e culturale con la terraferma cinese, in seguito alle persecuzioni effettuate ai danni del buddhismo. Qubilay dovette pensare che non poteva esistere preda migliore ad accrescere la sua già notevole fama. A incrementare la voglia di dedicarsi all’impresa dovette contribuire in maniera consistente la competenza navale che il suo esercito si stava nel frattempo costruendo, e la possibilità di poter accedere al know how dei coreani, che in materia avevano una discreta esperienza.
In ogni caso, Qubilay si imbarcò in un’avventura che sino a pochi anni prima sarebbe stata impensabile per il popolo mongolo, il cui rapporto con l’acqua si limitava a sporadiche abluzioni corporali effettuate per stretta contingenza sanitaria. A onor del vero, sembrerebbe che sulle prime il khan si fosse limitato a richiedere ai giapponesi un formale tributo. In tutte le circostanze, lo Shogun Reggente Hojo Tokimune rifiutò di replicare alle richieste del khan, generando in Qubilay una rabbia crescente che l’avrebbe indotto ad allestire la spedizione. Così, nel novembre del 1274 una forza composta da 15.000 soldati mongoli, cinesi e jurchen prendeva il largo a bordo di 300 grosse navi e 500 vascelli. Ad accompagnarli, un contingente mugugnante di 7000 soldati coreani, cui si sommava una ciurma di 7000 marinai della stessa etnia: se prima costoro avevano più di un motivo per attaccare i giapponesi, con lo scopo di limitare le incursioni con cui i pirati conosciuti come waegu flagellavano le coste coreane, adesso che in seguito all’occupazione mongola della Corea i raid si erano magicamente interrotti, non nutrivano la minima intenzione di stuzzicare di nuovo il vespaio.
Evidentemente Qubilay dovette essere convincente nell’aggregarli all’impresa, che si inaugurava con l’approdo alle isola di Tsushima e Iki, elette come basi per le operazioni future. Sebbene i giapponesi fossero informati da tempo dell’attacco, non riuscirono a mettere in campo una forza adeguata a respingerlo: la loro struttura economica troppo fragile non gli consentiva di apparecchiare un grosso esercito né tantomeno l’instabilità politica poteva offrire quello scudo necessario a fronteggiare l’emergenza. Così, l’armata che si presentò ad Hakata, a contrastare i mongoli appena sbarcati sulla costa occidentale dell’isola di Kiushu, se la vide subito brutta. Troppo preponderante lo strapotere delle armi a lunga gittata mongola e troppo disarmante l’inesperienza dei capi giapponesi in merito a grandi campagne campali: sebbene i samurai fossero formidabili nel combattimento corpo a corpo, nulla potevano contro un esercito che si muoveva in formazione compatta accompagnato dallo strepito di tamburi e campanelle in grado di disorientare i difensori in brevissimo tempo.
Dove non arrivò la perizia militare intervenne la natura, rivelandosi benigna alleata degli sprovveduti per quanto valorosi giapponesi. La disfatta imminente fu infatti interrotta dal sopraggiungere delle tenebre, al calare delle quali si scatenò un devastante uragano. I marinai coreani suggerirono di rientrare urgentemente sulle navi e di prendere il largo prima che gli scafi si sfracellassero sulle coste, convincendo così i riluttanti mongoli a intraprendere la ritirata. I pochi superstiti giapponesi, increduli per la sfacciataggine della sorte, ebbero l’ardire di incalzare il nemico, provocandogli tuttavia poche perdite. Il grosso delle truppe mongole fu però spacciato dall’infuriare della tempesta che, a dispetto degli avvertimenti coreani, riuscì a fracassare centinaia di imbarcazioni causando la morte di circa 13.000 uomini, almeno stando alla testimonianza fornita dallo storico Kyotsu Hori nel suo The mongol invasions and the Kamakura Bafuku.
La spedizione naufragava in una disfatta che ridimensionava drasticamente le velleità marittime di Qubilay. Impegnato al momento a risolvere la questione con i Sung, il khan fu tuttavia costretto ad abbandonare i propositi di vendetta. Passeranno svariati anni prima che potesse organizzare una spedizione punitiva: nel frattempo Qubilay dovette affrontare l’insorgere di un pericolo che minacciava di sgretolare dall’interno quanto finora costruito. Non fece neppure in tempo a festeggiare il successo ottenuto in Cina, infatti, che dall’Asia centrale si levò forte l’urlo di ribellione di suo cugino Khaidu che, autoproclamatosi difensore dei valori tradizionali dei nomadi mongoli, sfidava l’autorità di chi ai suoi occhi, avendo abdicato alle mollezze della vita sedentaria, appariva come un traditore di quella tradizione.
La data precisa dell’inizio delle ostilità appare nebulosa. Di certo Qubilay, alle prime avvisaglie dell’insofferenza del cugino, avrà tentato di ricondurlo a più miti consigli invitandolo a presentarsi a corte, ma senza esito; a quel punto, entrambi sapevano di non poter evitare uno scontro armato. Nel 1271 allora, il gran khan si decise a inviare ad Almalikh, presso uno degli avamposti più occidentali del suo regno, il proprio figlio Nomukhan, che già si era distinto a partire dal luglio del 1266 alla direzione degli affari militari nella Cina del Nord. Sebbene appena ventenne, il giovane apparve la persona più adatta a fronteggiare le scorrerie sempre più audaci effettuate da Khaidu, che nonostante sia dipinto dalle fonti favorevoli al khan come un personaggio infido, dedito solo alla razzia, a onor del vero rappresentò un ottimo esempio di governo: ci appare infatti capace di operare una sintesi tra lo spirito di conquista nomade e la prosperità stanziale delle città poste sotto il suo dominio, che ricordava la “grazia” espressa durante i primi anni dallo stesso Qubilay.
Forse proprio per questo, per impedire all’emulo di ripercorrere i suoi passi, che il khan fu deciso a stroncarne sul nascere le velleità, spendendo in prima persona il suo stesso erede. Tuttavia, Nomukhan non ebbe mai la ventura di incontrare Khaidu sul campo di battaglia. Il discendente di Ögöday preferì infatti stazionare più a ovest, affidando il compito di vedersela con il figlio di Qubilay a Barakh, il khan del Chagatay con il quale aveva stretto alleanza. Barakh e Nomukhan si scontrarono parecchie volte e nonostante quest’ultimo risultasse sempre vincitore, di fatto i suoi successi non cambiarono l’esito della guerra. Si trattò in effetti di poco più che scaramucce, incapaci di nuocere seriamente a ognuno degli schieramenti. Le cose si trascinarono in tal modo sino al 1276, quando il gruppo di principi che accompagnava Nomukhan decise di dare una svolta decisiva alla campagna catturando il figlio di Qubilay e consegnandolo al nemico, dal quale sperava di ottenere vantaggiosi riconoscimenti.
Il fatto che Nomukhan fosse tradotto in ceppi presso il khan dell’Orda d’Oro Möngke Temür e non al cospetto di Khaidu, come sarebbe stato lecito attendersi, la dice lunga su quanto ormai le frange delle sedizione si fossero allargate includendo tutti i principali khanati sorti in seguito alle prime conquiste escluse la Cina e la Mongolia. E comunque, a orientare la scelta dei congiurati fu il disappunto di Khaidu che, seppure avvantaggiato da quel tradimento, non volle avallarlo, rifiutando il transito sulle sue terre e ogni appoggio ai congiurati che, a quel punto, furono costretti a ripiegare nelle steppe della Mongolia e dell’Alto Yenisei. Nonostante ciò, per Nomukhan si spalancava la voragine di una prigionia nella quale languì per i successivi dieci anni: tanto ci volle affinché Qubilay potesse di nuovo riabbracciarlo, e solo dopo che Möngke Temür lo liberò di sua sponte nel marzo del 1284, intendendo aggraziarsi con quel gesto il grande khan, nei confronti del quale auspicava un riavvicinamento.
Non che Qubilay in quei due lustri non avesse provato a salvare il figlio; aveva inviato in suo soccorso anche il suo miglior generale Bayan, l’eroe della guerra contro i Sung. Ma tutti i suoi sforzi erano risultati vani: il sovrano dovette suo malgrado accettare la cruda verità, che lo vedeva incapace di riprendere il potere dell’Asia centrale, ammettendo de facto che la regione risultava sotto la sovranità dell’indomabile Khaidu. Gli andò meglio in Mongolia, dove nel 1279 riuscì a estirpare il nugolo dei cospiratori che avevano tradito suo figlio e a ripristinare pienamente il potere che quelli avevano intaccato. Alla fine, quindi, Qubilay si ritrovava a esercitare la piena autorità solo sulla sua terra d’origine, la Mongolia, e sulla Cina, che a conti fatti era risultata la sua unica fulgida conquista: nonostante tutto, non si poteva certo dire che fosse poco. Perlomeno fu questa l’impressione che dovette maturare nell’animo di Marco Polo che, approdato alla corte del khan nel 1275, aveva già avuto quattro anni per valutare la grandezza dell’opera di Qubilay.
L’incontro tra Qubilay e il più famoso viaggiatore del Medioevo avvenne verosimilmente a Ta-tu, la “grande capitale” che il khan aveva edificato nel 1264 poco più a nord-est dell’antica capitale sung Zhongdu, e che nelle memorie del veneziano verrà riportata con il nome di Khanbaliq, ovvero “Grande residenza del khan”. Per noi essa non è altro che Pechino o, come va di moda chiamarla attualmente, Beijing, riproponendo il titolo che le fu affibbiato nel 1403, in epoca ming, con il significato di capitale settentrionale. Comunque sia, fu tra le mura del sontuoso palazzo lì fatto erigere a partire dal 1274 seguendo la regola confuciana dei Riti di Zhou – che prevedevano l’alternanza di nove assi orizzontali e nove verticali –, che i due diedero vita a quel proficuo scambio capace di suggestionare la letteratura mondiale per i secoli a venire: un percorso plurisecolare inaugurato dalle memorie di Marco, che affidate alla penna di Rustichello da Pisa daranno origine al Milione, e conclusa con le Città Invisibili, nelle quali Calvino affiderà proprio al khan e al suo visitatore veneziano il compito di animare gli straordinari dialoghi lì presenti. Giunto nel momento in cui il regno di Qubilay toccava il suo apice, Marco poté apprezzarne l’effettiva portata, realizzata attraverso un impianto di governo che vantava pochi paragoni storici, sia per complessità che per estensione territoriale. Il veneziano fu testimone della volitività e dell’intelligenza attraverso cui il sovrano tentò di armonizzare i popoli posti sotto il suo dominio, non ultima la tolleranza religiosa che addirittura aveva spinto Qubilay a incaricare Niccolò e Matteo Polo, rispettivamente padre e zio di Marco, già giunti presso di lui in un precedente viaggio effettuato tra il 1260 e il 1266, ad affidare loro una lettera indirizzata al papa, in cui perorava l’invio di cento ecclesiastici. Quando i due Polo tornarono in occidente, nel 1269, papa Clemente IV era morto da appena un anno e la Chiesa, imbrigliata nell’elezione più lunga della sua storia (durerà poco meno di tre anni) non aveva ancora partorito il successore.
Impossibilitati a completare la missione, i due fratelli tornarono con le pive nel sacco al cospetto del khan, che non parve particolarmente contrariato del fallimento dell’ambasciata. Probabilmente la sua richiesta non contemplava l’intenzione di convertire al cattolicesimo i suoi sudditi, ma era animata semplicemente dall’idea di potersi contornare di uomini colti che l’aiutassero nell’amministrazione dell’impero. Un compito che fu svolto brillantemente dal giovane Marco, che accompagnando i congiunti nel loro secondo viaggio in Catai, rappresentò una vera e propria sorpresa per il khan, tanto piacevole da indurlo ad affidargli prima il posto di governatore nella città di Yang-chou (a e poi il ruolo di ambasciatore nel suo sterminato impero. Fu dunque in tale veste che il grande viaggiatore fu testimone della parabola discendente intrapresa da Qubilay a partire dal 1279.
Fino a quel momento, seppur con momentanee battute d’arresto, il khan aveva perseguito e ottenuto con tenacia gli obiettivi che si era prefissato. Aveva schiacciato ogni opposizione, compresa quella del fratello. Aveva organizzato un efficiente governo sul modello cinese, eppur capace di non rinnegare la tradizione mongola. Aveva edificato due splendide capitali e mantenuto un equilibrio tra gli elementi religiosi del suo regno. Aveva favorito le arti e assoldato abili artigiani affinché producessero oggetti di squisita fattura, per la gioia della corte e dei mercati stranieri. Come se non bastasse, i suoi eserciti avevano imposto il dominio sulla Corea e sulla Mongolia, unificato tutta la Cina e, tutto sommato, circoscritto i problemi relativi all’Asia centrale. Certo, aveva subìto il clamoroso smacco giapponese, ma da imputarsi piuttosto alla sfortuna, o meglio a una calamità naturale, che trascendeva la sua abilità mondandolo da ogni colpa. Tutto sembrava procedere a vele spiegate ma come spesso accade, anche in quella circostanza non tutto era oro ciò che luccicava. Spinosi problemi mai realmente risolti cominciarono ad affiorare, insinuando le crepe che sempre più profonde avrebbe deturpato la sua opera. A partire da quelli di natura finanziaria, determinati da un ventennio di folli spese, profuse per sostenere l’impalcatura sfarzosa del suo dominio e le incessanti campagne militari. Per fronteggiare le enormi falle che risucchiavano quanto contenuto nelle casse imperiali, Qubilay decise di affidarsi a un funzionario musulmano, tale A?mad, che passerà alla storia come una voracissima sanguisuga. Autore di veri e propri salassi fiscali, che misero in ginocchio chiunque dovette subirli, il ministro ingenerò un malcontento che incrinò sensibilmente la figura di Qubilay, il quale d’altronde, sempre più afflitto dai problemi derivati dai suoi stravizi, compresa una gotta lancinante, sembrava incapace anche fisicamente di affrontare le sfide che un governo come il suo costantemente poneva.
Nonostante ciò l’imperatore seppe imprimere un vigoroso colpo di coda, che si concretizzò con una delle più spettacolari opere da lui compiute, vale a dire la prosecuzione del Grande Canale, la tradizionale via d’acqua che costituiva il maggior collegamento tra Cina meridionale e settentrionale, allungato per circa 135 miglia sino a lambire la capitale settentrionale Ta-tu. Ennesimo simbolo di grandezza, l’opera fu terminata nel 1289 dal lavoro indefesso di circa tre milioni di operai, e comportò un enorme dispendio monetario che non aiutò di certo la già penosa condizione economica dell’impero. All’angustia provocata da tale situazione si sommò il dolore provocato dalla dipartita dell’amata Chabi, alla cui morte, nel 1281, si sommò cinque anni dopo la scomparsa di Chen-Chin, il figlio che dopo le sventure patite da Nomukhan aveva sostituito questi nella successione.
Qubilay non aveva mai digerito l’affronto patito in Estremo Oriente, e men che meno l’inflessibile caparbietà con cui i samurai rifiutavano di riconoscere la sua autorità: non da ultimo, l’ambasceria inviata nel 1279 per proporre una sottomissione pacifica, alla quale l’imperatore nipponico e lo shogun non si limitarono solo a opporre un diniego: ebbero anche la sfacciataggine di giustiziare gli emissari. A quel punto per Qubilay, imbarcarsi in una spedizione punitiva era non solo doveroso ma addirittura sacrosanto. Così, nella primavera del 1281 tutto era pronto per la nuova avventura, nella quale il khan impiegava la bellezza di 100.000 uomini e di 3500 imbarcazioni, affidandoli al comando di Fan Wen-hu, un ex generale sung, e al suo vice, il mongolo Hsin-tu. A questo contingente, partito dal porto di Ch’üan-chou, si sarebbe sommato quello proveniente dal Sud della Corea, composto da altri 40.000 effettivi, più 10.000 soldati, 15.000 marinai e 900 navi gentilmente concesse dai coreani. Numeri sconvolgenti, che se trovassero conferma dalle fonti archeologiche dimostrerebbero come la flotta messa in campo da Qubilay sarebbe stata la più grande della storia, seconda solo a quella impegnata nello sbarco in Normandia del 1944.
La strategia impostata dallo Stato Maggiore mongolo prevedeva il ricongiungimento dei due contingenti presso l’isola di Iki, che una volta occupata avrebbe costituito la base da cui sarebbe infine partita l’offensiva contro l’isola di Kyushu, dove risiedeva il Korokan, ovvero la “succursale” del palazzo imperiale nel Sud del Giappone. Ma stando alle cronache cinesi, già dalle prime battute la spedizione si mosse sotto cattivi presagi: fu avvistato infatti un serpente marino e percepita un’insopportabile puzza di zolfo gravitante sopra le acque, segni inequivocabili con cui le potenze infernali salutavano il passaggio della flotta maledicendola.
Quindi cominciarono i problemi seri: le truppe provenienti da sud, a causa del numero spropositato e dei conseguenti problemi logistici, ritardarono di circa sei mesi l’appuntamento, inducendo quelle del nord, impazienti, ad attaccare da sole e a occupare l’isola di Iki il 10 giugno 1281. Da lì, nell’arco di due settimane veleggiavano già alla volta dell’isola di Kyushu dove, al termine di una violenta battaglia navale, sbarcavano all’altezza di Manakata, a nord del vallo lungo circa 20 chilometri noto come ishitsuiji, costituito dai giapponesi come baluardo difensivo.
Il mancato sincronismo delle due armate di invasione permise ai nipponici di fronteggiare il nemico senza subire la pressione di una morsa che, altrimenti, l’avrebbe spacciata. I sino-coreani che riuscirono a raggiungere la riva con dei piccoli vascelli si trovarono in una situazione estremamente vulnerabile: accampati all’aperto, senza una fortificazione che fornisse loro un appoggio, dovettero fronteggiare un agguerritissimo esercito di samurai; costoro, protetti dal vallo, ebbero buon gioco nel rintuzzare gli attacchi dei nemici che, costretti ad aggirare il muro in cerca di punti di entrata alternativi, incappavano inevitabilmente contro le loro spade sguainate.
Per due mesi le cose si protrassero con sanguinaria monotonia finché, nell’agosto del 1281, dopo aver arrancato tra le onde per giorni e giorni, la flotta partita dalla Cina arrivò a vedere le coste giapponesi. Appresa la notizia dell’attacco coreano, tentò di raggiungere la baia di Hakata per dare manforte agli alleati ma sfortunatamente per lei non arrivò mai a destinazione. Mentre transitava di fronte a Takashima, infatti, avvenne l’imponderabile: un tifone violentissimo, agitato da venti che spiravano alla velocità di 250 chilometri orari, investì la flotta alle spalle, distruggendo tutto quello che trovavano sul loro cammino.
Faceva così il suo ingresso nella storia il kamikaze, il “vento divino” che, secondo la tradizione giapponese, soffiava per volontà degli dèi a salvare il Paese sotto la loro protezione. Il gigantesco turbine si abbatté sul Kyushu con la potenza di una bomba atomica, sradicando alberi e spazzando via cose e persone: sull’acqua, se possibile, il suo arrivo fu ancora più devastante. Le fragili imbarcazioni dei mongoli, “giunche” normalmente utilizzate per la navigazione ?uviale non adatte al mare aperto, furono sbriciolate dalla forza degli elementi: si calcola che ne affondarono a centinaia, trascinando con esse non meno di 50.000 guerrieri. Un’apocalisse che rese vano l’impiego dei teppo, un’arma di ultima generazione concepita dai mongoli e costituita da bombe esplosive da lancio, composte da un globo di ceramica ripieno di polvere da sparo e schegge di ferro: tutte sigillate in fondo al mare da cubiti e cubiti di bara liquida.
Chi riuscì a scampare alla furia del kamikaze incappò in quella dei samurai, altrettanto inclementi, e determinati a non concedere un solo metro. Fu un disastro in cui si infranse in Asia il mito dell’invincibilità mongola: Qubilay non solo appariva vulnerabile, ma perdeva uno dei cardini su cui poggiava la sua potenza, l’alone di terrore psicologico con il quale sino a quel momento aveva soggiogato i nemici. Per non parlare del danno economico provocato dai costi colossali profusi nell’impresa: in un sol colpo il khan vedeva volatilizzati finanze e prestigio.
Nonostante fosse ormai ridotto all’ombra del condottiero valoroso che era solo pochi anni prima, devastato nell’animo e sfatto nel corpo, Qubilay, caparbio, vagheggiò una terza spedizione contro il Giappone, per la quale spremette i suoi sudditi negli anni successivi alla disfatta finché, nel 1286, la schiacciante opposizione che si erse per arginare quella follia non lo convinse a desistere definitivamente.
Il fallimento nipponico non fu l’unico insuccesso nel quale il khan incappò durante gli anni del suo crepuscolo. La volontà di imprimere la propria autorità lo spinse a impelagarsi in complicate campagne nel Sud-Est asiatico, dalle quali ricavò solo sconfitte.La prima fu, nel 1277, ai danni di Narathihapate, il vanitoso sovrano del Pagan (odierna Birmania) che si autodefiniva «comandante supremo di 36 milioni di soldati», capace di mangiare «300 piatti di curry al giorno» e di copulare con 3000 concubine. Ciò che proprio non era andato giù a Qubilay era stato il trattamento riservato ai suoi emissari che, inviati per chiedere conto della sua invasione del piccolo regno del Kaungai, avevano ricevuto in risposta le carezze del boia. La spedizione punitiva inviata dal khan si risolse con una battaglia campale combattuta tra Yünnan e Birmania, nella quale i 10.000 uomini affidati al comando di Nafir al-Din, ottennero, non si sa bene se una mezza vittoria o una mezza sconfitta. Nonostante Marco Polo giurasse che il condottiero riportò a corte duecento elefanti, a testimoniare l’entità del bottino ottenuto, le fonti cinesi insinuano che i pachidermi fossero solo quattordici, per giunta ottenuti al termine di uno scontro che vide le forze mongole decimate.
Non andò meglio contro i regni dell’Annam e del Champa, entrambi fioriti in quell’area che oggi siamo soliti identificare come il Vietnam. Deciso a mettere in riga i recalcitranti sovrani, Qubilay dovette scontrarsi contro lo spirito d’indipendenza che sembrò anticipare di secoli la tenacia espressa da Ho Chí Minh o dal generale Giáp. All’epoca, l’incredibile resistenza del popolo vietnamita si incarnò in Tran Thánh Tông, imperatore nonché comandante militare dell’Annam.
Sin dalla prima invasione mongola, risalente al 1257 per volere di Gengis, l’eroe vietnamita aveva saputo frustrare l’iniziativa degli assalitori rifiutando qualsiasi battaglia campale e logorando il nemico con tattiche di guerriglia, rese oltremodo fastidiose da una giungla implacabile in cui caldo, insetti e malattie fecero il resto. Tran Thánh Tông era destinato a replicare nel 1284 e nel 1288, la battaglia combattuta l’8 marzo del 1288 costituì l’apogeo militare di Tông: quel giorno, la flotta mongola affidata al comando di Toghon, principe di Chen-nan, naufragò sulle punte delle picche che il generale annamita aveva fatto conficcare sul letto del fiume, consegnando quella data a una gloria che ancora oggi i vietnamiti ricordano. Molto meno volentieri lo ricordò Qubilay, che dovette maledire quel giorno al pari di quello in cui decise di avventurarsi nella ragnatela di regni e di giungle intricate che costituiva il mosaico asfissiante del Sud-Est asiatico nel quale fatalmente era destinato a soccombere.
Nel 1293 il khan si lanciò nell’ennesima quanto stravagante impresa marittima, puntando deciso la prua di circa 1000 navi contro le coste di Giava. Lì, il sovrano Kertanagara aveva messo in piedi un discreto commercio di spezie e, preoccupato che Qubilay intendesse sottrarglielo, aveva risposto all’immancabile ambasciatore che nel 1289 si era presentato richiedendo formale tributo al khan marchiandolo a fuoco in viso.
Qubilay non poté avere soddisfazione dal momento che Kertanagara, sprovvisto delle truppe, inviare a fronteggiare l’invasione mongola, fu colto di sorpresa nel suo palazzo sguarnito e assassinato da Jayakatwang, il capo del kediri che, in tal modo, dimostrava quanto il sovrano giavanese fosse benvoluto dai locali. A quel punto, le truppe inviate da Qubilay trovarono conveniente stringere alleanza con il genero di Kertanagara, tale Vijaya, che prometteva incondizionata sudditanza in cambio dell’aiuto ottenuto per punire i colpevoli della morte del suocero.
Sfortunatamente per Qubilay, Vijaya era destinato a ricoprire il ruolo di esempio di doppiezza. Una volta sbaragliato Jayakatwang e tutti i suoi accoliti, il nuovo sovrano attirò i suoi alleati sino-mongoli nella città di Madjapahit, dove a suo dire sarebbe avvenuto formalmente l’atto di sottomissione. Nel frattempo, aveva istruito i suoi uomini affinché tendessero un’imboscata durante la marcia di avvicinamento, nel corso della quale i mongoli persero circa 3000 uomini, prima di riuscire a mettersi in salvo sulle navi. A quel punto i litigi tra i comandanti e molto più i monsoni con le loro piogge, convinsero il contingente ad abbandonare l’isola lasciando impunito il traditore.
Qubilay incassava così l’ennesima disfatta, aggravata da un’ulteriore perdita di prestigio e funestata dalla totale mancanza di uno straccio di guadagno. Fu l’ultima “impresa” concessa al khan: il 18 febbraio dell’anno successivo, nel 1294, Qubilay si spegneva nella sala Tzu t’an del suo palazzo, sopraffatto dagli stravizi e dalle angustie accumulate soprattutto nell’ultima stagione dei suoi ottant’anni.

L'immenso impero mongolo all'epoca di Qubilay

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Marco Polo

Marco Polo (Venezia, 15 settembre 1254 – Venezia, 8 gennaio 1324) è stato un viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante. La relazione dei suoi viaggi in Estremo Oriente è raccolta nell'opera Il Milione, vera e propria enciclopedia geografica che riunisce le conoscenze essenziali disponibili in Europa alla fine del XIII secolo sull'Asia.
Membro del patriziato veneziano, con il padre Niccolò e lo zio Matteo, Marco viaggiò attraverso l'Asia, lungo la Via della seta, sino alla Cina (Catai) negli anni 1271-1295. Consigliere e ambasciatore alla corte del Gran Khan Qubilay, tornò a Venezia nel 1295 con una discreta fortuna che reinvestì nell'impresa commerciale di famiglia. Prigioniero dei genovesi dal 1296 al 1299, dettò le memorie dei suoi viaggi a Rustichello da Pisa (forse suo compagno di cella) che le scrisse in francese antico con il titolo "Divisiment dou monde". Ormai ricco e famoso, sposò la patrizia Donata Badoer che gli diede tre figlie.
Seppur non fosse stato il primo europeo a raggiungere la Cina, Marco Polo fu il primo a redigere un dettagliato resoconto del viaggio, guadagnandosi un posto di prim'ordine nell'Olimpo degli esploratori. "Il Milione" funse da ispirazione per generazioni di viaggiatori europei (non ultimo Cristoforo Colombo) e fornì spunti e materiali alla cartografia occidentale (in primis al Mappamondo di Fra Mauro.
Luigi F. Benedetto "persuaso che 'Milione' sia il nomiglio dell'autore" lo considera un'apocope del diminutivo "Emilione". Fra Iacopo d'Acqui parla di "dominus Marcus Venetus (...) qui dictus est Milionus". "In ogni caso, il nomigliolo ricorre negli atti pubblici della Repubblica; dove invero, almeno una volta, viene impiegato anche per il padre di Marco." Non è chiaro se tutti i membri della famiglia Polo del ramo detto Milion appartenessero al patriziato veneziano, certamente lo furono i mercanti Marco "il vecchio", i suoi fratelli e i suoi discendenti.
Il primo avo di cui si abbia notizia è l'omonimo prozio, Marco Polo, che prese del denaro in prestito e comandò una nave a Costantinopoli. Il nonno di Marco, Andrea, abitava in contrada San Felice ed ebbe tre figli: Marco "il Vecchio", Matteo e Niccolò, padre di Marco. Queste informazioni genealogiche, tramandate da Ramusio non sono però universalmente accettate perché prive si evidenze significative. Nel 1260, Niccolò e Matteo, a quel tempo in affari a Costantinopoli (allora parte dell'Impero latino d'Oriente era controllata dai veneziani), cambiarono i loro averi in gemme e partirono per un viaggio attraverso l'Asia. Passando per Bukhara e il Turkestan cinese, raggiunsero la Cina, arrivando alla corte del neo-nominato Khagan (Imperatore mongolo) Qubilay Khan. L'azzardo dei fratelli Polo fu per loro provvidenziale: nel 1261 infatti Giovanni VII Paleologo riconquistò Costantinopoli, rifondando l'Impero bizantino, ed epurò la città dai veneziani. Niccolò e Matteo ripartirono per l'Occidente nel 1266, arrivando a Roma nel 1269 con un'ambasciata del Gran Khan, una richiesta al Papa di missionari per la Mongolia.
Nulla si sa dell'infanzia di Marco Polo tranne il fatto che probabilmente la passò a Venezia. Restato orfano di madre (il padre si sarebbe poi risposato con Floradisa Trevisan), venne cresciuto dagli zii. Ricevette un'educazione consona al suo status, imparando a navigare, a far di conto (anche con valuta straniera) ed a commerciare. Non è chiaro se conoscesse o meno il latino.
I fratelli Niccolò e Matteo Polo ripartirono nel 1271, questa volta portando con sé Marco, "di età variamente indicata da dodici a diciannove anni, secondo le fonti. Se ne desume che doveva essere nato tra il 1250 e il '55". Procedettero verso l'interno del continente eurasiatico, attraversando l'Anatolia e l'Armenia. Scesero quindi verso il fiume Tigri, toccando probabilmente Mosul e Baghdad. Giunsero fino al porto di Ormuz, forse con l'intenzione di proseguire il viaggio via mare. Continuarono invece a seguire la via terrestre e, attraverso la Persia e il Khorasan, raggiunsero Balkh e il Badakhshan. Superarono il Pamir in quaranta giorni e discesero verso il bacino del Tarim. Attraverso il deserto del Gobi giunsero ai confini del Catai, nel Tangut, la provincia più occidentale della Cina. Quindi proseguirono lungo la parte settentrionale dell'ansa del Fiume Giallo, arrivando infine a Khanbaliq (attuale Pechino, la capitale che il Khagan stava facendo costruire proprio in quegli anni), a conclusione di un viaggio durato tre anni e mezzo.
Una volta arrivato nel Catai, Marco ottenne i favori di Qubilay Khan, divenendone consigliere e in seguito anche ambasciatore: «Quando i due fratelli e Marco giunsero alla gran città ov'era il Gran Cane, andarono al mastro palagio, ov'egli era con molti baroni, e inginocchiaronsi dinanzi da lui, cioè al Gran Cane, e molto si umigliarono a lui. Egli li fece levare suso, e molto mostrò grande allegrezza, e domandò loro chi era quello giovane ch'era con loro. Disse messer Nicolò: "Egli è vostro uomo e mio figliuolo". Disse il Gran Cane: "Egli sia il ben venuto, e molto mi piace".» (Il Milione di Marco Polo Vol. I, p. 6, Baldelli Boni, Firenze, 1827)
Onorati e investiti di cariche governative, Marco in particolare "per le sue missioni ufficiali si spinse nel Yunnan, nel Tibet, in Birmania, in India, lungo tragitti che ancora oggi presentano difficoltà per nulla lievi, anche prescindendo dalle condizioni politiche." Marco Polo fece ritorno a Venezia solo 24 anni dopo essere partito, il 9 novembre 1295[. Secondo Ramusio, a convincere i parenti increduli dell'identità dei tre, furono i preziosi nascosti tra gli abiti.
Secondo una diffusa leggenda, il 5 settembre 1298 Marco Polo si trovava su una delle novanta navi veneziane sconfitte dai genovesi nella battaglia di Curzola. Di sicuro fu catturato dai Genovesi, anche se non nei pressi di Curzola, come sostenuto da alcuni studiosi influenzati dal Ramusio, ma più probabilmente a Laiazzo in Cilicia, dopo uno scontro navale nel Golfo di Alessandretta. Durante la prigionia incontra Rustichello da Pisa, fosse "in prigione da quattordici anni o vi venisse come libero frequentatore, fu quasi sicuramente lui a dare forma scritta alle memorie del veneziano" che ebbero rapida fortuna in tutta Europa.
Polo fu finalmente rilasciato dalla prigionia nell'agosto 1299 e tornò a casa a Venezia ove, nel frattempo, il padre e lo zio avevano acquistato un grande palazzo in Contrada San Giovanni Crisostomo (sestiere di Cannaregio), la c.d. "Corte del Milion": acquisto reso probabilmente possibile con i proventi del commercio e della vendita delle gemme portate dall'Oriente. La Compagnia Polo continuò le sue attività commerciali e Marco divenne presto un ricco commerciante. Marco e lo zio Matteo finanziarono altre spedizioni ma probabilmente non abbandonarono mai le province veneziane né tornarono sulla via della seta o in Asia. Qualche tempo prima del 1300 Niccolò Polo morì. Marco, nel 1300, sposò la patrizia Donata Badoer, figlia di Vitale Badoèr, commerciante, dalla quale ebbe tre figlie: Fantina (sposò Marco Bragadin), Belella (sposò Bertuccio Querini) e Moreta.
Nel 1305, Marco Polo viene menzionato in un documento veneziano tra i capitani di mare locali in merito al pagamento delle tasse. I dati relativi a questo periodo sono comunque oscuri: non è chiara la relazione tra Marco ed un omonimo "Marco Polo" coinvolto nei moti anti-aristocratici del 1300, data in cui rischiò la pena capitale, e del 1310 (la c.d. "Congiura del Tiepolo" alla quale parteciparono effettivamente dei Polo ma di un ramo secondario: Jacobello e Francesco). Nel 1309-1310 Marco partecipa alla spartizione dei beni del defunto zio Matteo. Nel 1319 entrò in possesso di alcune tenute del padre defunto e nel 1321 acquistò parte della proprietà di famiglia della moglie Donata.
Nel 1323, Marco Polo era malato e inabilitato a muoversi dal letto. L'8 gennaio 1324, in punto di morte, dettò le sue ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustiniani di San Procolo, convocato dalle donne di casa. Marco divise i suoi averi tra la famiglia, diversi istituti religiosi (tra cui la Chiesa di San Procolo e la Chiesa di San Lorenzo presso la quale sarebbe stato sepolto) nonché gilde e confraternite a cui apparteneva. Tra le altre cose, compensò con 200 soldi il notaio Giustiniani e affrancò e dotò di 100 lire veneziane un servo tartaro che si era portato dall'Asia, tale Pietro. La data della morte non è certa: la Biblioteca Marciana, presso la quale è conservato il testamento di Marco (testamento non firmato autografo dall'interessato ma semplicemente confermato dai testimoni in accordo alla prassi del signum manus), data al 9 giugno il documento e post-9 giugno il decesso; secondo alcuni, invece, Marco Polo morì il giorno stesso in cui il testamento venne redatto.
Come per tutti gli avvenimenti del passato, non sarà mai possibile verificare la storicità del suo viaggio in Cina senza una prova oggettiva, e ad oggi non esiste alcuna prova, riscontro o evidenza sul suo leggendario viaggio in Oriente.


Eugenio Caruso - 23 ottobre 2019

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