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Andrej Belyj autore di Sinfonie in prosa poetica i cui versi assumono anche una connotazione mistica.

 

… era una battaglia tra una bestialità antica e un’assennatezza nuova, ma ancora dalle parvenze inumane; e lui sapeva che, una volta messo il piede sul sentiero di quello scontro, non sarebbe più potuto tornare indietro… Belyj

 


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

I RUSSI
Belyj - Blok - Brodskij - Bulgàkov - Bunin - Cechov - Dostoevskij - Erofeev - Esénin - Gogol - Gor'kij - Lermontov - Majakovskij - Nabokov- Pasternak - Puškin - Šalamov - Saltykov Šcedrin - Šolochov - Solženicyn - Tolstoj - Turgenev - Zamjatin -

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Belyj a a Brussels nel 1912

Andrej Belyj (Mosca, 26 ottobre 1880 – Mosca, 8 gennaio 1934) è stato uno scrittore, poeta, filosofo e critico letterario. Andrej Belyj ("belyj" in russo significa letteralmente "bianco") è una figura di grande rilievo nella letteratura russa contemporanea. Figlio di Nikolaj Vasil'evic Bugaev (1837-1903), docente di matematica presso l'Università di Mosca, e di Aleksandra Dmitrievna Egorova (1858-1922), grande pianista, adolescente entrò in contatto con Sergej Solov'ev (nipote del filosofo Vladimir Solov'ev), scrisse le prime poesie e dal 1896 si appassionò al simbolismo francese e al pensiero di Arthur Schopenhauer. Nei primi anni del Novecento lesse i versi di Aleksandr Blok e iniziò a nutrire un certo interesse per la teosofia.
Studiò Matematica presso l'Università di Mosca, dove a partire dal 1903 strinse amicizia con il filosofo e mistico Pavel Aleksandrovic Florenskij. In questi anni intrattenne relazioni e rapporti con società filosofico-religiose, impegnate in un dibattito che, recuperando alcune antiche tradizioni del misticismo, poneva in discussione i rigidi confini dell'ortodossia.

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La casa di Belyj ora museo Belyj


Dal 1912 al 1916 soggiornò nell'Europa occidentale e si avvicinò alle teorie antroposofiche di Rudolf Steiner, interrompendo i rapporti con Florenskij. Fece parte del gruppo che costruì il Johannes Bau, chiamato in seguito Goetheanum. Sua moglie Assia (Anna Alekseevna Turgeneva) e sua sorella Natalija parteciparono pure attivamente all'impresa (Assia diresse il gruppo di scultori). Belyj percorse l'Europa al seguito di Steiner, che dette delle conferenze a Stoccarda, Monaco, Vienna e Praga. Ritornò in Russia nel 1916, per raggiungere nuovamente Berlino nell'autunno 1921 in un nuovo viaggio, Nel 1923 ritornò per sempre in patria. Morì a Mosca l'8 gennaio 1934, per un colpo di sole subìto in Crimea.

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Belyj nel 1933


Belyj fu pure martinista, Superiore Incognito, membro della loggia San Giovanni l'Apostolo.
Le opere La sua prima opera, del 1904, è una raccolta di liriche intitolata Oro in azzurro, nelle quali l'elemento decadente si intreccia con il mondo dei misteri. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, un'atmosfera triste e malinconica impregnò le liriche di Cenere (1908) e Urna (1909).
Pietroburgo (1913), considerato il suo capolavoro e definito da Vladimir Nabokov come uno dei quattro più grandi romanzi del ventesimo secolo, è ambientato in un'isterica atmosfera a cavallo tra i due secoli nell'omonima città (Pietroburgo). Il romanzo, delirante e grottesco nella trama, in un complicato contesto sociale legato alla Rivoluzione del 1905, racconta di un attentato dinamitardo che deve eseguire un giovane terrorista (Nikolaj) ai danni del padre, un funzionario della burocrazia statale (Apollon Apollonovic Ableuchov).
Il secondo romanzo pre-rivoluzione è Il colombo d'argento che tratta delle sue ricerche nel campo del misticismo, mentre Kotik Letaev, opera autobiografica, è scritta sia sotto l'influenza di Steiner che del movimento dello scitismo dell'intellettuale Ivanov-Razumnik.

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Belyj dipinto di Petrov-Vodkin


Nel frattempo diviene intensa anche la sua attività di critica coi volumi Simbolismo (1910) e Arabeschi (1911) nei quali discute sia di elementi formali sia di contenuti. Dopo la rivoluzione scrive libri di memorie: Al confine di due secoli (1930), Principio del secolo (1933), Tra due rivoluzioni (1934).

Traduzioni italiane

  • Sinfonia nordica, traduzione e introduzione di Angelo Maria Ripellino, in ‹‹Russia. Letteratura, arte, storia››, a cura di Ettore Lo Gatto, De Carlo, Roma, 1945, pp. 57-72
  • Pietroburgo, Einaudi, Torino, 1961
  • Il colombo d'argento, a cura di Georges Nivat, tr. it. Maria Olsoufieva, Rizzoli, Milano, 1964 (1981)
  • Cristo è risorto, Ceschina, Milano, 1969
  • Kotik Letaev, Ricci, Parma, 1973
  • Il colore della parola: saggi sul simbolismo, a cura di Rossana Platone, Guida, Napoli, 1986
  • Saggi sul simbolismo, a cura di Angela Dioletti Siclari, tr. it. Angiola Aloysio e Pia Dusi, Zara, Parma, 1987
  • Gli spettri del caos: simboli e simbolismi russi, a cura di Rosanna Casari e Ugo Persi, Guerini, Milano, 1989
  • Viaggio in Italia, a cura di Giacoma Strano, Lucarini, Roma, 1989
  • Lettere (1903-1908), con Aleksandr Blok, a cura di Raffaella Belletti e Rossana Platone, Edizioni e/o, Roma, 1982
  • L'arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, con Pavel Aleksandrovič Florenskij, traduzione e cura di Giuseppina Giuliano, Medusa, Milano 2004
  • Glossolalia. Poema sul suono, traduzione e cura di Giuseppina Giuliano, Medusa, Milano, 2006
  • Oro in azzurro, a cura di Maurizio Scotti, Il faggio, Milano, 2006
  • La corona di fuoco. Poesie scelte, a cura di Giuseppina Giuliano, Medusa, Milano, 2007
  • Pietroburgo, Adelphi, Milano, 2014

Letteratura critica

  • Ferruccio Martinetto, Andrej Belyj: la sinfonia dell'assoluto, Prospettiva Editrice, Civitavecchia (Roma) 2003
  • Lena Szilard, Pietroburgo di Andrej Belyj tra massoneria e rosacrocianesimo, in ‹‹Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Sassari››, II, 2002, pp. 189-210
  • Nina Kauchtschischwili, La "2ª Sinfonia" di Andrej Belyj. Problemi di metodologia e interpretazione, ‹‹Linguistica e Filologia››, 14, 2002
  • Antonio Maccioni, A. Belyj, P. Florenskij, L'arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, in ‹‹eSamizdat››, IV, 2006, pp. 99-100
  • Marco Sabbatini, A Belyj, Glossolalia. Poema sul suono, in ‹‹eSamizdat››, IV, 2006, pp. 97–99

PIETROBURGO

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Trama
L'azione del romanzo si svolge a San Pietroburgo nel 1905, nel periodo immediatamente precedente la Prima rivoluzione russa. Un comitato rivoluzionario, guidato da un certo Lippancenko, ha ordinato che il suo aderente Nikolaj Apollonovic Ableuchov compia un attentato contro il proprio padre, l'alto funzionario governativo Apollon Apollonovic Ableuchov. Nikolaj non ha intenzione di compiere l'attentato: è uno studente di filosofia seguace di Kant e ha aderito al partito rivoluzionario non per convinzione politica, ma in un momento di sconforto per essere stato rifiutato dalla donna di cui era innamorato (Sof'ja Petrovna Lichutina). Dudkin, uno dei terroristi, un alcolizzato che soffre di allucinazioni, viene incaricato di consegnare a Nikolaj una bomba, che ha l'aspetto di una scatola di sardine; la lettera che accompagnava la bomba, con le istruzioni, finisce però nelle mani di Sof'ja Petrovna la quale, credendola uno scherzo, durante un ballo in maschera la consegna ad Apollon Apollonovic, la vittima designata. Un agente della polizia segreta, infiltrato nell'associazione di Lippancenko, minaccia Nikolaj di prigione se non dovesse tener fede ai suoi propositi terroristici.
Il mattino dopo Nikolaj dice a Dudkin di non voler commettere un parricidio, di non averlo mai promesso e accusa il partito di crudeltà. Dalla conversazione Dudkin si rende conto che Nikolaj, il quale non ha ricevuto la lettera di Lippancenko e ne ignora quindi il contenuto, ignora l'imminenza dell'attentato contro il padre. Dudkin si convince inoltre che nella vicenda si sono creati malintesi ed errori e si ripromette di sistemare il tutto. Dudkin si reca perciò da Lippancenko e gli racconta i problemi che ha rilevato. Lippancenko accusa inaspettatamente Dudkin di mancanza di fervore rivoluzionario; gli dice inoltre che Nikolaj merita di dover sottostare a una prova crudele perché ha denunciato alla polizia i suoi compagni. Dudkin si rende improvvisamente conto che Lippancenko è un provocatore e sta mentendo. La notte successiva Dudkin, in preda ad allucinazioni più forti del solito, nel corso delle quali riceve una benedizione dal Cavaliere di bronzo, uccide Lippancenko con un paio di forbicine, poi si accomoda sul cadavere nella posa del Cavaliere di Bronzo. Nel frattempo Apollon Apollonovic si reca nella stanza del figlio, trova la scatoletta-bomba in un cassetto dello scrittoio e, all'oscuro del suo contenuto, la porta distrattamente nel suo studio. Più tardi il figlio, che vorrebbe gettare la bomba nella Neva, non la trova più nel cassetto e la cerca invano dappertutto. Durante la notte la bomba esplode: il padre rimane però illeso. Apollon Apollonovic lascia Pietroburgo per ritirarsi in campagna. Suo figlio parte per l'Egitto dove vivrà in solitudine, leggerà le opere di Skovoroda e ritornerà in Russia solo nel 1913, dopo la morte dei genitori.
Genesi dell'opera
Andrej Belyj iniziò a scrivere il romanzo, il secondo della progettata trilogia "Oriente o Occidente", nell'autunno del 1911. Inizialmente il romanzo avrebbe dovuto intitolarsi Putniki (I viandanti), i personaggi avrebbero dovuto essere gli stessi del romanzo Il colombo d'argento e Nikolaj Apollonovic Ableuchov avrebbe avuto una particina episodica. Tuttavia, a mano a mano che l'autore procedeva nella stesura, il romanzo diventava completamente diverso da quanto previsto per clima, stile e struttura. Belyj attribuì al romanzo, una volta terminato, numerosi titoli (La guglia dell’Ammiragliato, Ombre funeste, La carrozza laccata, Il domino rosso) prima di adottare il titolo suggeritogli da Vjaceslav Ivanov il quale riteneva che protagonista del romanzo fosse proprio la città di Pietroburgo.
Struttura
Apparentemente in Pietroburgo «abbiamo la tecnica del mistero nella sua forma pura». La trama del romanzo ha infatti come nucleo l'azione terroristica che mette di fronte a un alto funzionario governativo il proprio figlio, al quale è stato dato l'ordine di uccidere il padre, sullo sfondo della Russia rivoluzionaria del 1905; intorno a questo nucleo si svolgono numerose «vicende che consistono sostanzialmente in una pittura di tipi e di ambienti caratteristici della decadenza morale e spirituale della vita russa del principio del secolo». Alcuni motivi del romanzo sono autobiografici: per esempio, le incomprensioni fra padre e figlio, la passione di Nikolaj per una donna sposata, la passione per i balli in maschera, il viaggio di Nikolaj in Egitto, il suo interesse per il filosofo ucraino Skovoroda; inoltre alcuni personaggi adombrano personaggi concreti della storia russa dell'epoca. Šklovskij tuttavia sottolinea che Andrej Belyj «ha voluto creare una "epopea" antroposofica». Ripellino afferma che, nonostante i legami con la realtà, il romanzo di Belyj è una rassegna di spettri, «come se Belyj trasferisse nelle proprie pagine i fantasmi evocati in una seduta spiritica». «Belyj osserva la rivoluzione e il fermento dell'epoca con le lenti annebbiate del simbolismo. [...] Il romanzo condivide le tipiche predilezioni dei simbolisti: le siluette e le ombre cinesi, le "taches nuancées", gli aggettivi composti, i paragoni con gemme (ametiste, rubini, turchesi), l'emblematica dei colori: tutto questo proviene dall'armamentario del simbolismo. La tendenza a disporre i personaggi su un fondale pittorico, in modo da ricavarne effetti cromatici». Ma soprattutto, «il romanzo rivela una straordinaria ricchezza di artifici stilistici: vi si trovano "flash-backs", "chassés-croisés", sprazzi di monologo interiore, spunti di saggio filosofico, e persino accenni di automatismo (nella stesura dei sogni). Belyj conduce in modo simultaneo diversi temi convergenti, articolando la narrazione su molteplici piani. E giuoca a volte con l'intreccio come un attore che esca dalla parte, per indicare che le vicende cui stiamo assistendo non sono realtà, ma spettacolo».
Critica Pietroburgo suscitò fin dall'inizio interesse e apprezzamento. Block ne fu fortemente colpito e in una lettera a Pavel Eliseevic Šcegolev del 19 dicembre 1913 definisce Pietroburgo la più significativa opera letterarie pubblicata quell'anno, assieme a Der Tunnel di Bernhard Kellermann. Per Šklovskij, in un saggio del 1924, «Andrej Belyj è lo scrittore più interessante del nostro tempo. Tutta la prosa russa contemporanea ne porta l'impronta». Belyj non è stato condizionato dalle premesse ideologiche extraartistiche (l'antroposofia, il simbolismo russo). Decenni dopo, Nabokov riteneva Pietroburgo uno dei quattro massimi romanzi del Novecento, uguagliando Belyj a Proust, Joyce e Kafka.


IL COLOMBO D'ARGENTO

Andrej Belyj è uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi. Nato a Mosca nel 1880, all’anagrafe Boris Bugaev, l’autore de Il colombo d’argento assunse lo pseudonimo Belyj (il colore bianco) a indicare, come ha commentato Pietro Citati, “lo zero, perché solo da esso tutti i colori, vergini, sono nati”. È importante richiamare la dimensione ‘cromatica’ della sua scrittura. Chi legge i romanzi e le cronache di viaggio di Belyj incontra vivide descrizioni dell’ambiente, urbano o contadino, tanto simili al gusto descrittivo della prosa gogoliana e accostabili, per forza visionaria, alle composizioni incantate di Marc Chagall. Amico del poeta Aleksandr Blok, con esso Andrej Belyj condivise la passione per le concezioni mistico-filosofiche di Vladimir Solov’ëv. Tra il 1913 e il 1916, lo scrittore abbracciò l’antroposofia di Rudolf Steiner, tanto da partecipare alla costruzione dell’edificio di ‘culto’ degli steineriani, lo Johannes Bau, a Dornach, nei pressi di Basilea. La scienza del ‘sacro Graal’ come via di accesso al vero Cristo, il sentimento di un’Anima del Mondo, la critica alla civiltà occidentale rea di aver smarrito l’essenza della religione cristiana, il concetto di perfettibilità dell’Ente-Uomo da ricercarsi nel ciclo delle reincarnazioni… sono solo alcuni temi, tra i tanti, coltivati dall’autore all’interno di una temperie sapienziale vastissima e profonda, raccordata all’occultismo e alle discipline teosofiche.
Il colombo d’argento, scritto nel 1909, è un capolavoro. La lettura sedimenta nell’animo di chi legge un senso di soddisfazione spirituale, degno delle esperienze letterarie autentiche e radicali. L’elemento di paragone più prossimo sono, probabilmente, i Demoni di Fëdor Dostoevskij: al centro della narrazione troviamo potenze invincibili, evocate dal sottosuolo, che nel romanzo di Belyj agitano la Russia pre-rivoluzionaria a partire dal suo cuore rurale. Protagonista del romanzo è il giovane intellettuale Pëtr Dar’jal’ski, avventuriero, aspirante filologo, libertino e gozzovigliatore, uomo di città, prototipo di una nuova classe dirigente ancora acerba e immatura, in rotta con l’arcaismo politico incarnato dallo Zar. Dar’jal’ski è fidanzato con Katja, nipote della baronessa Todrabe-Graaben, esponente della nobiltà decaduta che a Gugolevo, nei pressi di Lichov, cittadina sperduta nell’immensa campagna russa, ha una tenuta. L’amore per Katja è presto ostacolato dall’irruzione di una misteriosa ragazza, Matrëna, serva e musa di Mitrij Kudejarov, grezzo falegname a capo della setta dei “colombi”. Se Katja è l’emblema di una raffinatezza sociale stantia e depressiva, tanto da sembrare una giovane destinata a una non-vita, alla stasi, a una combinazione matrimoniale dettata dalle convenienze di classe (e infatti il suo fidanzamento con Pëtr è osteggiato dalla nonna), la sporca Matrëna dal viso butterato, nel suo furore sessuale, nel suo dionisismo istintivo, rappresenta l’apertura entusiastica e inconsapevole al demoniaco, inteso come il tizzone infuocato della Storia, la fiaccola di una rivoluzione presagita da tutti e ormai alle porte.

Ma coloro che sedevano adesso qui non conoscevano la nuova Russia né le sue canzoni né le parole che, al di là dei tigli, agitavano l’anima; i ragazzi, i canti e le parole dei canti risuonavano adesso lontani; i ragazzi intonavano quei canti da lontano; e quelle parole, quei canti mai sarebbero giunti a questo decadente rifugio, mai quei ragazzi sarebbero penetrati in questo giardino; ma era un’illusione; le parole, il canto, i ragazzi erano già qui; da tempo il canto avvelenava quest’aria intrisa di vecchi suoni e faceva spalancare i neri occhi della baronessa; lei lo sapeva da tempo; aveva condannato se stessa e la Russia alla rovina e al sacrificio nella battaglia finale; ma si fingeva adesso muta e sorda, come se non sapesse nulla dei nuovi canti; Pëtr, invece, sapeva.

Dar’jal’ski è presto sedotto da fermenti religiosi lontani dall’ufficialità ortodossa. La seduzione è al contempo religiosa e carnale, eretica e immanente, ineffabile e sensuale: un viluppo inestricabile di estasi e bassezze prosaiche. Slancio estatico che spinge Pëtr nella dimensione del delirio e del sogno ad occhi aperti, tra i chiaroscuri della follia, nei recessi dell’alienazione totale del sé; sensualità vischiosa che abbatte le difese, ammalia i corpi, inchioda il ventre maschile a quello femminile, spinge al concepimento di un figlio battezzato nella luce. Chi sono i “colombi”, e cosa predicano? Quali prodigi intravedono gli infervorati adepti nell’unione, desiderata e ottenuta, tra Pëtr e Matrëna? Cosa accade nella dimora del ricco mugnaio Luka Silyc Eropegin in assenza del padrone di casa? Il romanzo squaderna davanti al lettore una serie di sequenze magistrali, oniriche e materiali insieme, a tratti in piena assonanza con l’iconografia tipica di un Tarkovskij, o di un Sokurov, registi che immergono la propria arte nella cifra espressiva del pittorico.

… era una battaglia tra una bestialità antica e un’assennatezza nuova, ma ancora dalle parvenze inumane; e lui sapeva che, una volta messo il piede sul sentiero di quello scontro, non sarebbe più potuto tornare indietro…

Andrej Belyj accompagna il protagonista, caratterizzato da una camicia di seta rossa via via più lacera, nella sua lenta discesa agli inferi. Raggirato, plagiato, illuso. Lo vediamo, passo dopo passo, scivolare nella fanghiglia dei sospetti (atteggiamento mentale di ogni setta che aspira alla purezza, a un Assoluto non negoziabile), affogare tra le onde di una crescente scelleratezza, divenire, infine, carne per il sacrificio. Emerge il contrasto insanabile tra il sopra e il sotto, tra l’elevato e l’infimo, polarità opposte che fanno detonare un congegno narrativo caricato a molla: le altezze celesti del divino, invocate in oscure riunioni notturne, contro le tangibili e repellenti descrizioni di isbe infestate da scarafaggi; la mota che incrosta i piedi scalzi dei villani versus i cieli infuocati del tramonto russo, dalla bellezza inenarrabile; l’ardore devozionale, coltivato nell’attesa di un’imminente redenzione delle masse e tramutato in anelito mistico-rivoluzionario, a confronto con le quotidiane occupazioni segnate dalla nera miseria e dai vizi più turpi… L’autore pianta un seme di fuoco che dà i suoi frutti nel superbo, agghiacciante finale. Kudejarov, baciato dalla fede eppure dominato da umani sentimenti, ratifica il fallimento del progetto.

Si, era stato lui a persuaderla, questo era certo; le cose non erano andate come dovevano: senza preghiere, senza senso, senza rito; e se non c’era un rito sacro, questo rivelava dissolutezza in entrambi: lui era malato, sofferente e logorato dal digiuno e dalla tosse: come poteva dedicarsi alle donne? Un tempo le frequentava, ma adesso Matrëna doveva procreare: era solo questa la via da seguire; e lui sapeva chi sarebbe nato e quali sarebbero state le conseguenze: la nascita dello Spirito, l’incolombamento della terra e la liberazione del popolo contadino, ma a condizione che Matrëna si fosse unita a quel signore; e questa circostanza gli era invisa, se il suo cuore traboccava adesso di gelosia…

Il romanzo disegna la Russia di allora: pope rivoluzionari arrestati dalla polizia politica, volantini inneggianti alla sollevazione popolare, combutte pianificate in bettole di paese, messianismo mischiato a marxismo elementare, spie disseminate ovunque, e all’orizzonte il bolscevismo. I “colombi” sono plasmati dallo scrittore attorno alle caratteristiche del chlystismo, setta storicamente esistita, dedita a pratiche orgiastiche “liberatorie”. Sullo sfondo, l’Oriente contrapposto all’Occidente. Dar’jal’ski resta impigliato nelle ragnatele della Storia mentre cerca la verità su se stesso e sul suo popolo. Il colombo d’argento è un romanzo-testimonianza da leggere e da ricordare.

Alessandro Vergari


POESIA

Io sono nelle parole

Io sono nelle parole   
così languidamente
muto.
Sono maschere le mie sentenze.
E
racconto
a voi tutti: racconto favole,
poiché così mi è destinato,
ma non comprendo per qual motivo;
poiché da tempo ogni cosa è fuggita nel buio;
poiché
poco importa
ch'io sappia o lo ignori;
poiché
mi attedio dovunque:
poiché
la favola
-smeraldina-
in cui ogni cosa è diversa…
poiché
si ha
voglia di svaghi
a dismisura poiché
la penosa
esistenza
ha per tutti
la stessa conclusione…
poiché
infine,
a che scopo questo inferno?
poiché una sola è
la fine
per tutti…
E
in
me
si leva una risata
sopra
il destino
di tutti e su me stesso!

L'ETA' D'ARGENTO DELLA LETTERATURA RUSSA

Diversamente da quello che si è creduto per un bel po’ di tempo la cd. età d’argento, ossia il periodo che intercorse tra la fine degli anni novanta dell’Ottocento e la Rivoluzione del 1917, non corrispose affatto ad un affievolirsi della creatività e della grandezza che avevano caratterizzato l’età dell’oro, di cui erano stati protagonisti Dostoevskij, Gogol’, Puškin e Tolstoj coi loro romanzi, quanto piuttosto ad un periodo di maggiore consapevolezza delle capacità creative dell’artista che si espresse, in particolar modo, nella poesia e nelle variegate forme che assunse nelle tre correnti poetiche principali: simbolismo, acmeismo e futurismo.
Per essere ancora più precisi, come sottolineò in un articolo del 1937 Vladimir Vejdle, quei vent’anni circa “videro il risveglio delle forze creative della chiesa ortodossa, una fioritura senza precedenti della coscienza storica russa, una ripresa nel campo della filosofia, della scienza, della letteratura, della musica, della pittura, del teatro”. Tutte le discipline furono poste sullo stesso piano accumunate da quello “stupefacente rinascimento dello spirito” che emerse prepotentemente in quegli anni.
In questo senso un ruolo di primo piano, spetta sicuramente a Wassilij Kandinskij il quale, alla ricerca di un nuovo linguaggio pittorico, l’astrattismo, rivoluzionò l’arte svincolandola dal compito di riprodurre la realtà visibile partendo dal presupposto che la forza dei colori rendesse superfluo l’oggetto e poiché, come molti poeti simbolisti, era convinto che le arti fondate sulla percezione sensoriale si compenetrassero tra loro, la sua ricerca confluì spesso in sintesi di pittura e poesia, intese entrambe come strumenti per superare il pensiero materiale. Tra il 1908 e il 1912 pubblicò 38 poesie accompagnate da silografie (considerate da Kandinskji “poesie senza parole”) a colori ed in bianco e nero, col titolo di Suoni. Per Kandinskij, infatti, i colori non erano legati tanto agli oggetti quanto ai suoni e i colori, insieme ai suoni e alle parole, avevano il compito di portare lo spirito ad una sfera percettiva superiore, arrivare a quella che definiva “la spiritualità dell’arte”.
Il cavaliere azzurro, azzurro come il colore del cielo e delle forze spirituali, Der Blaue Reiter, pubblicato nel 1912, è la personificazione delle virtù magiche-romantico-fiabesche, nonché simbolo della ricerca e dell’avvento di una nuova era che verrà alla luce dalla lotta dello spirituale contro il materiale. La lotta contro il drago (San Giorgio) era presente nell’iconografia russa, nell’opera di Kandinskij e nell’arte popolare bavarese e non è un caso che l’almanacco, insieme a saggi sulla pittura, la musica, il teatro, contenesse riproduzioni di questo tipo di arte, nonché pitture cinesi, disegni a china giapponesi, giochi d’ombre egiziani, sculture del Camerun e del Messico. Lo stesso Kandinskij aveva fatto numerosi viaggi all’estero. Nel 1909 era stato a Tunisi e aveva riportato le sensazioni di quei viaggi nelle opere di quegli anni, come Improvvisazione africana, Impressioni orientali, Impressioni arabe I, Composizione II Tappeti musulmani. Nel 1910, nella veste di critico d’arte, per la rivista Apollon, espresse il tuo interesse per l’arte dell’Oriente: delle silografie giapponesi apprezzava il “suono interiore” , delle miniature persiane il completo distacco dalla realtà oggettuale e la “primitività” del colore.
Quando Sullo spirituale nell’arte uscì nel 1914 non mancò di avere influenza sui contemporanei con cui Kandinskij aveva stretti rapporti come Kazimir Malevic il quale, partendo dai dipinti neoprimitivisti, giunse alla sintesi del Quadrato nero su fondo bianco definito dall’artista stesso “una nuda icona senza cornice del mio tempo”, cioè la liberazione totale dall’oggetto, ossia il suprematismo cioè la “supremazia della sensazione pura nell’arte”.
L’attrazione per l’arte primitiva, coinvolse in quegli anni altri esponenti della pittura russa come Michail Larionov, tra i fondatori del neoprimitivismo russo che, con la ricerca delle lubki, immagini a tema religioso e favolistico della tradizione popolare russa, contribuì a far conoscere lo spirito più autentico della sua terra, con lo sguardo costantemente rivolto ad Oriente rispetto all’Europa (proprio per questo, nonostante fu definito il padre del futurismo russo, ebbe sempre un rapporto conflittuale con il futurismo così come inteso in Occidente) o come Natal’ja Goncarova, compagna di Larianov, che trovò il primitivismo nelle icone e nelle stampe popolari, allo stesso modo in cui i poeti di quegli anni lo trovarono nella mitologia e nelle antiche lingue slave. È il caso di Velimir Chlebnikov, uno dei principali poeti futuristi, il cui stile fu caratterizzato dallo sperimentalismo, attraverso la lingua poetica detta zaum, e dalla visionarietà ed elevatezza dei contenuti, cosa gli valse l’appellativo di “un poeta per poeti”. Egli mise insieme le due tendenze contrapposte della cultura russa: il nuovo e l’antico, l’avanguardia e la tradizione, elementi che furono il tratto distintivo del futurismo russo e gli diedero uno spessore culturale maggiore rispetto a quello europeo.
E se in quegli anni Aleksej Remizov si faceva notare per la sua predisposizione per il racconto-fiaba ispirato all’antica letteratura russa come Fiabe di Asyk, zar delle scimmie o Fiabe del popolo russo, Konstantin Bal’mont era un simbolista puro, noto per l’estrema musicalità dei suoi componimenti come nella raccolta Siamo come il sole. Il poeta viaggiò per il mondo: Egitto, Indonesia, Messico, Perù e, proprio come Kandinskij faceva con la pittura, trasformò le impressioni e le sensazioni in versi che rimandavano ai canti dei popoli che aveva conosciuto. Non è un caso che molte sue poesie furono trasposte in musica e ispirarono i più grandi compositori dell’epoca.
I richiami alla musica e al colore furono fondamentali in Andrej Belyj autore di Sinfonie in prosa poetica e Oro in azzurro i cui versi assumono anche una connotazione mistica, nella concezione del poeta quale creatore di miti. E, ancora, in Nikolaj Gumilev, principale esponente dell’acmeismo, che viaggiò molto, specie in Africa, e riportò quelle atmosfere esotiche nelle sue raccolte come Fiori romantici, Le perle, Cielo straniero.
La mostra L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente. (dal 27 settembre 2013 a 19 gennaio 2014, presso Palazzo Strozzi, Firenze) riconosce per la prima volta a livello internazionale il ruolo fondamentale dell’Oriente nel modernismo russo, e l’attrazione della cultura russa per il primitivo, il tradizionale, l’esotico, che coinvolse tanto la letteratura che la pittura, per il ruolo fondamentale che la cifra spirituale assunse in tutte le forme d’arte dell’epoca.
Come scrisse Vladimir Vejdle, l’età d’argento fu “un’età che non tanto creò, quanto fece rivivere e riscoprì” una profonda fede nell’arte e nella forza della parola, peculiarità dell’immensa cultura della Russia.

Annalisa Pistoia


2 febbraio 2024 - Eugenio Caruso

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Tratto da

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