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Nikolaj Nekrasov, grande poeta russo.

Nel nostro secolo beffardo e arrogante,
Non suscita sentimenti umani
La parola “madre”, seppur così grande.
Ma sono avvezzo a sdegnare le usanze.


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

I RUSSI
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Nikolaj Alekseevic Nekrasov ( Nemyriv, 10 dicembre 1821 – San Pietroburgo, 8 gennaio 1878) è stato un grande poeta.

«Ma se davvero abbiamo
mal compreso il dovere che incombeva
su di noi, e la nostra missione
non era di serbare il nome antico,
la dignità di nobile,
con l'uso della caccia,
i banchetti fastosi e ogn'altro lusso,
e di vivere col lavoro altrui,
perché non ce l'han detto in precedenza?
Che cosa ho mai imparato?
Che cosa ho visto intorno a me?
Ho solo vegetato,
portato la livrea del mio sovrano,
ho sfruttato il tesoro dello Stato
e pensavo così di viver sempre»
(N. A. Nekrasov, da Chi vive bene in Russia?)


Nikolaj Nekrasov nacque a Nemyriv, nell'oblast' di Vinnycja, in Ucraina. Il padre Aleksej era una persona volgare e illetterata, nobile di provincia e ufficiale dell'esercito; anche la madre, la polacca Aleksandra Zakrzewska, vantava origini nobili.

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Nekrasov

Lasciati gli studi che aveva iniziato nell'Università di San Pietroburgo, Nekrasov debuttò nel 1840 con l'antologia di poesie Sogni e suoni, criticata da Vissarion Grigor'evic Belinskij, che tuttavia divenne in seguito suo amico e ammiratore della sua opera più matura. S'impegnò con bravura e con senso degli affari in un ciclo di progetti editoriali, l'«Almanacco pietroburghese», 1846, dove fu pubblicato il romanzo Povera gente di Dostoevskij, la rivista Sovremennik (Il Contemporaneo), nel 1847, che fu soppressa dal governo nel 1866 dopo il primo attentato contro lo zar Alessandro II, e gli «Annali patrii», rilevati da Nekrasov insieme con Saltykov-Šcedrin nel 1868, che diresse fino alla morte, tutte riviste che divennero il punto di riferimento dell'intellighenzia radicale e, in particolar modo, dei principali esponenti della scuola realista.

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La madre

Del 1854 è l'opera Vlas, mentre del 1861 il poema Gli ambulanti, che contiene la celebre Canzone del vagabondo, nella quale Nekrasov esibisce con notevole veemenza significativa come il proletariato non sia per lui solamente una «letteraria dimensione sentimentale».
Argomento predominante dei suoi scritti sono i tormenti patiti dal popolo e le ingiustizie a cui il ceto prevalente assoggetta il popolo stesso, e l'aspetto poetico che gli è più consono è il poema lungo, la cui tecnica rievoca gergo e ritornelli dei canti popolari. Non sono tralasciate le riproposizioni in stile satirico di metri e forme che pertengono alla poesia alta. Nel 1863 scrisse Gelo, naso rosso, dove, distaccandosi per una volta dal costume della canzone popolare, idealizza quasi favolisticamente l'immagine della contadina russa sullo scenario maestoso di una grandissima foresta gelata.
L'ultima opera di Nekrasov, Chi è felice in Russia? (1866-1877), è pure il suo capolavoro, edito dopo la sua morte. La trama narra di sette contadini che vagabondano in tutta la Russia per trovare i motivi della propria tristezza, finisce con intonazioni di felice speranza nel futuro. Il popolo russo identificò Nekrasov come il «suo» poeta e gli rese omaggio con un funerale che fu uno dei più emozionanti tributi di popolo mai dimostrate a uno scrittore.

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Le ultime canzoni. Olio su tela


Fortuna
In Delitto e castigo e ne I fratelli Karamazov, Dostoevskij ricorda i versi del poeta che descrivono la morte di una cavallina, frustata a sangue nei miti occhi da un mužik e poi finita dai presenti, per definire l'orrore del mondo contro le creature più deboli e indifese. Dostoevskij, pur lontano da Nekrasov per tanti versi, scrisse anche che

«Nekrasov concluse la serie di quei poeti che avevano detto una parola nuova e in questo senso doveva stare subito dopo Puškin e Lermontov [...] c'era nell'animo di Nekrasov una forza originale che non lo abbandonò mai: il suo sincero, appassionato e soprattutto immediato amore per il popolo».

La fama di Nekrasov, che pure si era dichiarato convinto che il suo nome sarebbe scomparso con la sua morte, è rimasta intatta anche nel Novecento: il poeta Nikolaj Semënovic Tichonov (1896–1979) scrisse che

«Nekrasov fu un maestro disperso, ciondolone, capriccioso, ma ha dei versi sorprendenti. Probabilmente sentiva per istinto la necessità di prendere le parole, le rime, le frasi dal discorso comune, per contrasto con il canone dello "stile elevato" di Puškin. Parole non risonanti per bellezza, glaciali, flessibili, quelle che si dicono parole appassite, parole abortite. L'elevatezza della sua voce nobilita questo materiale».

Nel 1911 Nikolay Alexandrov mise in musica il suo poema Pokhorony, da cui è nata la canzone popolare russa Mezh Vysokikh Khlebov Zateryalosya.


Commento di Paolo Statuti
Nikolaj Nekrasov nacque il 10 dicembre 1821 a Nemirov, nel governatorato di Podolia. Il padre Aleksej Nekrasov (1788-1862) era ufficiale dell’esercito zarista. Si innamorò di lui la bella e colta Elena Zakrevskaja (1801-1841), figlia di un nobile di origine polacca. I genitori erano contrari al matrimonio di Elena con il non ricco e illetterato ufficiale, ma lei lo sposò ugualmente nel 1817. Non fu una unione felice. Il padre del poeta, un uomo squallido e brutale, dedito al gioco, alla caccia, alle gozzoviglie, era l’esatto contrario della madre del poeta, dal carattere quieto e mite. Nekrasov adorava sua madre, alla quale dedicò molti bellissimi versi, identificandola con la donna-martire russa.
Nel 1838 il giovane Nikolaj fu inviato dal padre a Pietroburgo, alla scuola militare per i figli dei nobili, ma il poeta preferì prepararsi agli esami di ammissione all’università. Come conseguenza il padre lo privò di ogni mezzo di sostentamento, costringendolo a cercare diversi lavori occasionali e temporanei. Tuttavia leggeva con passione scrittori come Puškin, Lermontov, Deržavin, Žukovskij, e cominciò a comporre diversi quadri della vita pietroburghese, prendendo a modello Gogol’ e Dostojevskij. A Pietroburgo restò alcuni anni – anni “di fame e di freddo” e di sacrifici, prima di affermarsi e di entrare con tutti gli onori nel mondo letterario.
Nel 1877, già lottando contro la morte, scrisse una delle sue opere più belle dal titolo Dal poema: “Madre”. Non c’è forse in tutta la letteratura russa una poesia con tale forza espressiva nel manifestare i propri sentimenti verso la madre, nella quale egli vedeva l’ideale umano. Dobbiamo sottolineare a tale proposito, che Nekrasov elevò in generale il ruolo e l’importanza della donna nella vita sociale.
Trascurando se stesso e la salute, di debole costituzione fisica, il giornalista, poeta, critico letterario, redattore ed editore nella stessa persona, non aveva tempo per la sua vita privata. Solo all’inizio del 1870 entrò in relazione con la giovane popolana Viktorova, che egli chiamava Zina, e la sposò poco prima di morire. Era eccitabile di natura, si agitava continuamente, a volte pieno di energia e a volte in preda alla pigrizia e allo spleen. Morì a Pietroburgo nel 1877, all’età di 57 anni. Ai suoi funerali partecipò un’enorme folla in rappresentanza di ogni ceto sociale. Nel cimitero di Novodevic’e il saluto di addio fu pronunciato da Dostojevskij, Plechanov e altri. Quando Dostojevskij paragonò la scrittore a Puškin, si levarono molte voci indignate: “Più in alto, più in alto!”.
E’ indubbio che nessuno dei poeti russi della seconda metà del XIX secolo ebbe in vita una tale fama, nonché tanti amici e nemici, quanti ne ebbe Nekrasov. Egli fu tra i primi a scorgere la nascita del proletariato russo, la fatica morale e fisica dei contadini. I nemici lo accusavano di “macchiare la poesia” con una tematica indegna della parola rimata, cioè con la meditazione sulle sofferenze del popolo, delle donne e dei contadini in particolare. Ma Konstantin Bal’mont, uno dei teorici del simbolismo russo, disse che

“Nekrasov occupava un posto pari a quello occupato dai grandi poeti russi del XIX secolo: Puškin, Lermontov, Tjutcev, Kol’zov”.

Scrive Ettore Lo Gatto:

«“Poeta della vendetta e della tristezza”, egli ha saputo trascinare a sé i cuori dei giovani, che nei quadri tristi della vita russa da lui dipinti, non attingevano pessimismo, ma ardire e certezza di vittoria… Spesso sentimentale e freddo, Nekrasov non mentì mai nell’espressione dell’amore che nutriva per il popolo; spesso retorico, non esagerò mai quando la sua poesia era celebrazione di spirito di sacrificio, di fede in un avvenire migliore».

Ecco la mia traduzione del poema “Madre”.

“Madre”
1
Nel nostro secolo beffardo e arrogante,
Non suscita sentimenti umani
La parola “madre”, seppur così grande.
Ma sono avvezzo a sdegnare le usanze.
Tale musa mi ha dato la sorte:
Essa è libera: schernisce o loda,
Oppure tace, come altera schiava.
In molti anni tra lavoro e trascuranza
Per vergognosa viltà io evitavo
La nobile e tormentata sembianza;
Per la sacra memoria… E’ giunta l’ora!..
Il mondo ama gli orpelli e i sonagli,
La folla non riconosce gli amici,
Essa porta lodi, corone e lauri
Solo a chi la sferza duramente;
La corona intrecciata dalla folla
Brucerà la fronte della martire obliata –
Io non le offro una corona tardiva,
Ma voglio che nella notte profonda,
Splenda per voi la sua luce viva,
Simili a lei o cuori infelici!..
Forse io di biasimo son degno,
Turbando il tuo sonno, o madre? Perdona!
Ma tutta la vita per la donna io peno.
Al suo riscatto son chiuse le strade;
Per conquistare la sua libertà,
Le forze già mi vengono meno,
Ma tu le insegnerai la ferrea volontà…
Benedicila, o madre: l’ora è scoccata!
Il petto è gonfio di suoni disperati,
E’ ora di offrire loro il mio pensiero!
Il tuo amore, i tuoi tormenti sacri,
La tua lotta, il tuo sacrificio io canto!..
2
Io lasciai presto la casa natia.
Sedicenne mi guadagnavo il pane,
(Nella capitale cercai la mia via.)
E nel frattempo ogni tanto studiavo.
A vent’anni, con la testa affaticata,
Più morto che vivo soffrivo la fame,
Ma con alterigia ritornai a casa.
Rividi la campagna, i campi, il Volga.
Tutto come prima – i campi e le persone…
E sempre lo stesso amato fiume…
Ma con una novità: il battello a vapore!
Ma fu un attimo di vita piena.
Tu gorgogliavi – come ruota del mulino
Girando – o caro corso d’acqua,
E le rive facevano un sonnellino.
Tutto sonnecchiava: zattere e battelli,
E sul fondo del traghetto anche il burlàk;
Egli si sveglierà – e tu Volga rivivrai!
Ho riudito il ritmo lento delle note…
Verrò ancora qui ad ascoltare i nipoti,
Dove sento voi, o padri e figli cari!
Ormai per cos’altro io vivrei mai?
A un tratto dal sonno e dal torpore preso,
Nell’afa meridiana entro nel giardino;
In esso le fonti brillano e scrosciano.
Ascoltando il loro canto impetuoso,
I tigli misteriosamente frusciano.
Li amo: sotto la loro chioma verde,
Quieta come la notte e come ombra lieve,
Tu, madre mia, ogni giorno passavi.
Presso la lapide dove giaci, o cara,
Ho rammentato, turbandomi e sognando,
Che avrei potuto rivederti ancora,
Ma tardai a venire! E al mio lavoro
Fui destinato e alle brame, alle avversità,
Fui trascinato dall’onda della Nevà…
Non sotto il cielo di famiglia tu giaci –
Là si soffoca, là il sole si cela;
Non giacerà là neanche il tuo poeta…
E finalmente entrai nella vecchia casa:
Nuovo il pavimento ed altre cose ancora;
Ma di ciò non mi davo pensiero.
Esaminai, conservati da mio padre,
I tuoi lavori, le carte restate
E una lettera attirò la mia vista.
Una con lo stemma e bellamente orlata,
Piena di parole ardenti e appassionate,
Ora in polacco ora in francese scritta.
Rammentavo qualcosa vagamente:
A lungo sospirando ogni secondo,
Leggevi tu nella mia lontana infanzia,
Sola, nel giardino; pur non sapendo niente,
Io capivo che ti causava dolore,
Mia cara, – io di bruciarla fui lieto,
Ancora oggi quella lettera odio.
Notte fonda! Mi affretto in giardino…
La cerco, voglio abbracciarla con ardore…
Dove sei? Accogli il mio saluto, o madre!
Mi risponde solo l’eco indifferente…
Scoppiai a piangere; ah! lei non c’è più!
La luna spuntò e inargentò il giardino,
Sotto i tigli immobile restavo,
L’ombra dei quali l’amata tanto amava.
Io l’aspettavo e l’attesa non fu vana…
Ora a lenti, ora a rapidi passi
Ella viene; la lettera nella mano…
Ella viene…lo sguado attento scorre
Su di essa con angoscia e tristezza.
“Tu di nuovo con me! – non volendo esclamo. –
Tu di nuovo con me…” Gira la testa…
Un debole pianto, un sussurro! Io ascolto
Le parole della lettera, che già conosco!
3
La lettera
Varsavia, 1824
O quale notte oggi ho passato!
Oh, figlia mia! che cosa ci hai fatto?
A chi, a chi affidasti il tuo destino?
Quale paese al tuo hai preferito?
Ho sognato: eri braccata dai cani,
Tra le nevi russe tu erravi.
Era inverno, una notte maledetta,
Ardeva un falò, acceso da selvaggi,
E presso il fuoco con gli occhi chiusi
Giacevi tu, figlia mia diletta!
Nereggiava intorno un bosco atro,
E mugghiava… la notte era lunga,
Tu gemevi, come schiavo con l’aratro,
E alla fine sei impietrita – sei morta!..
Oh, quanti sogni…quanti cupi pensieri!
Io lo so, Dio punisce i cuori ribelli,
Io credo ai sogni e piango, come bambina…
Di tutta Varsavia siamo gli zimbelli.
La tua mano egli cercava come la fama,
E di lui ti innamorasti davvero,
Hai preso a cuore un ufficiale, un militare,
Ti invaghisti di un selvaggio! è vero,
Mi sembra che abbia modi decorosi,
Che sia intelligente non posso negare.
Ma la sua indole, l’educazione…
Firmando sa scrivere il suo nome?
Perdona! provo in petto l’indignazione –
Non posso, non devo in silenzio restare!
La natura là è inclemente,
La tua bellezza perderai per sempre;
Alla tua treccia dovrai rinunciare,
Là, perdona: solo “piangere e amare”.
Per l’ultima volta tua madre ti bacia –
Io convincere una fuggiasca non devo;
Il tuo destino è nelle tue mani:
Torna in famiglia, sii fedele ai tuoi avi –
O, maledicendoli l’intera vita,
E per sempre da me smarrita,
Come una rinnegata rimani là,
Spregiata schiava di un moskal’.
Mi svegliai. Le fonti risonavano,
E gli uccelli sui tigli cantavano.
Nella mano la lettera…non tua, mia cara!
Turbato, chinai tristemente il capo.
La natura era ancora addormentata;
La luna si specchiava nello stagno;
Le lappole guardavano immobili,
Come carcerati da una casamatta.
Detti un’occhiata ai libri che mia madre
Aveva portato con sé da lontano,
Delle note in margine leggevo:
In esse il suo spirito scoprivo.
E di nuovo io piangevo, e pensavo
Alla lettera e la lessi di nuovo,
E la dolce anima affranta, in essa
Per la prima volta nella sua bellezza
Mi apparve e inseparabile è rimasta,
O Madre-martire! dal tuo triste figlio;
Te e le tue orme cercavo dappertutto,
Il mio tempo libero a te era dedicato.
La tua pallida mano che mi accarezzava,
Quando presso il fuoco che si smorzava
Nell’infanzia io sedevo accanto a te,
A volte al crepuscolo mi apparivi,
E la tua voce al buio sentivo,
Piena di affetto e di melodia,
Con la quale mi narravi le fiabe
Di cavalieri e di re, o madre mia.
Poi, quando Dante e Shakespeare leggevo,
Mi sembrò d’incontrare volti noti,
Perché le immagini dei loro mondi
Nella mia mente avevi già impresso tu.
E presi a ricordare, dove col pensiero,
Dove con l’anima, o martire, vivevi,
Quando intorno la violenza trionfava,
E ululavano i cani nel canile,
E la bufera le finestre imbiancava…
Scendendo un’invisibile scala
Io verso l’infanzia scendevo, quando
Tu eri ancora la mia bambinaia
E il mio angelo-custode, cara mamma.
In un altro paese, anch’esso infelice
Ma meno rigido tu sei nata,
Nel settentrione misero e cupo
A diciott’anni sola ti sei trovata.
Cessò di amare chi spartì la tua sorte,
E tu seguisti in un paese straniero, –
Egli non è più tuo, ma tu lo amavi,
Tu puoi amare solo fino alla morte…
Tu alla lettera hai risposto tacendo,
Per la tua strada intrepida sei andata.
Tuonava il piano, e la tua voce afflitta
Era quella di un’anima sofferente,
Eppure eri tranquilla e sorridente:
“Infelice son’io, vessata da un altro,
Ma di fronte a te, donna di uno schiavo!
Di fronte a uno schiavo curvo sull’aratro,
Il mio destino – è un destino invidiato!
Infelice sei tu, o patria mia! Lo so:
Tutto il paese è prigioniero e trepida,
Ma il paese, dove io amo e muoio,
E’ assai più infelice, più infelice!”
Caos! tendo alla passione, al delirio!
Caos! a stento balena la mente
Del poeta, ma devo compiere il voto
Sacro della gioventù, prima della tomba!
Lo capiranno o no – sarà eseguito!..
Tardai a venire! Io come si conviene
Non posso fare il lavoro sospirato,
Ma oserò in un quadro stringato
Il tuo destino, mia cara, contenere.
E io potrò!.. L’arte mi aiuterà,
Mi aiuterà la morte – presto le servirò!..
Una piccola lacrima da un grande cuore…
Diventata un oceano sconfinato!..
Vent’anni di sacrifici hai patito,
Finché il tuo cammino non è finito.
E non invano nella steppa senz’acqua
Scorreva una sorgente per gli assetati.
E non invano splendeva il tuo amore:
Come nei cieli, per quanto oscurati,
Ma se la notte si arrende già all’aurora,
Tutto alla fine un raggio di sole vedrà!
E brillò il tuo giorno! Tu hai vinto!
Ai tuoi piedi è il padre dei tuoi figli,
I tuoi da tempo ti hanno perdonata,
Bacia uno schiavo il tuo serto spinato…
Ma…vent’anni!.. Con dolcezza, morendo,
Hai sospirato…e in silenzio sei morta!
Oh, quanta forza hai mostrato, mia cara!
In che modo la vittoria ti ha premiata!..
La tua anima splende come diamante,
Frantumato in migliaia di grani
Nella tua grande opera non vista.
Davanti ad essa ho chinato la testa,
Io la canto (dammi le forze, o cielo!..).
Destinata a una lotta modesta,
Tu non potevi sfamare l’affamato,
Tu non potevi lo schiavo liberare.
Ma tu gli hai tolto la sua paura,
Grazie a te dal tremito e dalla polvere
Più volte levò lo sguardo al cielo
E la sua anima sentì più sicura…
Forse è meno di una goccia del mare,
Ma vent’anni! Ma a migliaia di cuori
Che sognano una minore sventura,
Sono ora più chiari i confini del male!
Il tuo signore gli istinti ereditari
Ora frenava, ora sfogava violento,
Ma se egli nei suoi folli sollazzi
Ai figli non dava il cattivo esempio,
E se la sua sfrenata libertà
Non portò a un punto fatale, –
E’ perché vegliavi tu su di lui,
Quando era preda dell’oscurità…
E se io facilmente col tempo ho tolto
Dall’anima mia le funeste tracce
Dell’aver calpestato la ragione,
E lodato l’ignoranza dell’ambiente,
Se io ho lottato con decisione
Per gli ideali del bello e del bene,
E se il canto che io ho composto,
Ha i tratti profondi del vero amore –
O madre mia, lo devo solo a te!
La mia anima tu hai salvato in me!
E sono felice! Sei uscita dal mondo,
Ma vivrai nella memoria della gente,
Finché in essa vivrà la mia lira.
Passeranno gli anni – ad essa qualcuno
Dedicherà la sua attenzione.
Saprà anche quale fu il tuo destino;
I resti obliati del poeta visiterà,
Ed anche per te egli sospirerà.
(1877)
Canto dell’errante
Io per prati vado – fischia il vento nei prati:
Freddo, o errante, freddo,
Freddo, o fratello, freddo!
Io per boschi vado – ulula la bestia nel bosco:
Fame, o errante, fame,
Fame, o fratello, fame!
Io nel grano vado – come sei misero, o grano!
Per il freddo, o errante, per il freddo,
Per il freddo, o fratello, per il freddo!
Io tra le mandrie vado: com’è debole la mandria!
Per la fame, o errante, per la fame,
Per la fame, o fratello, per la fame!
Entro in un villaggio: paesano! tu vivi al caldo?
Freddo, o errante, freddo,
Freddo, o fratello, freddo!
In un altro: paesano! mangi e bevi bene?
Fame, o errante, fame,
Fame, o fratello, fame!
In un terzo: paesano! perché percuoti la tua donna?
Per il freddo, o errante, per il freddo,
Per il freddo, o fratello, per il freddo!
In un quarto: paesano! perché vai all’osteria?
Per la fame, o errante, per la fame,
Per la fame, o fratello, per la fame!
Io di nuovo nel prato – fischia il vento nei prati:
Freddo, o errante, freddo,
Freddo, o fratello, freddo!
Io di nuovo nel bosco – ulula la bestia nel bosco:
Fame, o errante, fame,
Fame, o fratello, fame!
Io di nuovo nel grano,
Io di nuovo nella mandria,
e così via.
Traduzione di Paolo Statuti

25 marzo 2024 - Eugenio Caruso


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Tratto da

1

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